AVELLINO – La guerra in Kosovo. Il terremoto dell’ottanta in Irpinia e quelli de L’Aquila e San Giuliano di Puglia. Tutte situazioni drammatiche, tutte storie di morte e dolore. Eppure negli occhi di Maurizio Abbenante, il primo medico ad essere arrivato sul luogo della tragedia, ci sono ancora quelle quarantanove persone che ha dovuto estrarre, una ad una, dalle lamiere del pullman caduto dal viadotto dell’A16 a Monteforte Irpino. Ci sono ancora i lamenti e le lacrime dei bimbi che cercavano mamma e papà. Nella sua voce tremante si sente ancora la voce di quella ragazza che era riuscito a salvare e che poi, come in un beffardo scherzo del destino, è morta mentre saliva in ambulanza. Dottore ci racconta quella tragica sera? “Io ero a casa, abito poco lontano dal luogo dell’incidente. Quando mio figlio è tornato, mi ha detto di andare a vedere cosa fosse successo perché l’autostrada era completamente bloccata e perché aveva visto delle persone scendere in strada. Così, ho preso la motocicletta e sono andato. Ho fatto la strada ‘normale’, non l’autostrada, ed in pochi minuti sono arrivato sul luogo dello schianto. In quel momento, è arrivata la chiamata dalla centrale operativa del Pronto Soccorso per un grave incidente sull’autostrada, e non ‘sotto’ il viadotto come era in realtà. Ecco perché i primi soccorsi sono arrivati sull’A16. Nella stradina dove è caduto il pullman, invece, c’erano soltanto i vigili del fuoco, e due ambulanze di Avella, che hanno portato via i primi tre bambini che siamo riusciti a soccorrere. A quel punto sono rimasto solo, ma mi sono messo a lavoro insieme con i pompieri”. Qual è la prima cosa che avete fatto? “La situazione era gravissima, ancora non mi spiego come i bambini siano usciti con così poche lesioni da quella catastrofe. Comunque, soccorsi i piccoli, che bene o male sono stati subito recuperati, ci siamo concentrati sugli altri. Il quadro era impressionante: il pullman era senza il ‘tetto’ e girato su un fianco, quindi le persone erano incastrate fra la base del mezzo e il terreno e tutto ciò che era nel bus continuava a cadergli addosso. Nessuno dei feriti, infatti, è riuscito a muoversi con le proprie forze ed è toccato a me, con l’aiuto dei vigili del fuoco, riuscire a recuperarli. Le operazioni non sono state per niente semplici, anche perché molti erano bloccati fra le lamiere e i corpi di altre persone. Però, in mezz’ora, quaranta minuti, siamo riusciti a liberare i dodici feriti. E poi abbiamo continuato cercando di liberare anche i cadaveri. Quali sono state le difficoltà più grandi? I problemi più grandi sono stati il buio e la mancanza di spazio. Quando sono arrivato, abbiamo cominciato a cercare i feriti e i cadaveri aiutandoci solo con delle torce. Dopo, fortunatamente, è arrivata una luce elettrica dei vigili del fuoco che ha illuminato la zona. Zona che è incredibilmente impervia e non pulita. Siamo stati costretti ad operare fra gli alberi e i rovi in uno spazio incredibilmente piccolo. E, a tutto questo, va aggiunta l’enorme presenza di sangue e di cadaveri. Poi, mentre prestavamo i soccorsi, da sopra il ponte la polizia ci ha avvisato che c’era un new jersey, lo stesso che ha ceduto, che si manteneva solo grazie ad un tubolare di ferro e penzolava proprio sopra il pullman. Quindi, ci hanno chiesto di sgomberare la zona. Andare via, però, avrebbe significato lasciare morire tutti e nessuno di noi si è mosso da lì. Le dodici persone che avete soccorso erano coscienti? Parlavano, le chiedevano qualcosa? In quei momenti, prima di qualsiasi intervento ci presentiamo con l’altra persona. Serve per dare un punto di riferimento a chi è in una condizione difficile. C’erano persone che ci chiamavano, che chiedevano aiuto. Qualcuno mi gridava: ‘Maurizio ti prego salvami’. Altri volevano sapere se le persone accanto a loro fossero vive o morte. Qual è la cosa che fa più fatica a dimenticare? Io ho partecipato a tante emergenze come medico, ma la scena di quella sera era impressionante. I corpi non erano sparsi in un’area vasta, erano tutti ammassati gli uni sugli altri, è stato davvero brutto. Tutti quelli che hanno perso la vita sono morti per lesioni interne o schiacciamenti e i cadaveri non erano per niente belli da vedere. Poi, ricordo una ragazza che eravamo riusciti a salvare. Sembrava stesse bene, quando era ancora incastrata, mi diceva: “Maurizio ti prego tirami fuori, non ce la faccio più”. Ce l’avevamo fatta, l’avevamo estratta dalle lamiere e già sistemata sulla barella. Ma, mentre saliva in ambulanza è andata in arresto cardiocircolatorio ed è morta.