Lapidato per la professione di fede cristiana . La Chiesa celebra la festa, in onore di Santo Stefano, il 26 dicembre. Una scelta per nulla casuale, quella del calendario liturgico cristiano, in coincidenza con il giorno successivo a quello che la cristianità dedica all’evocazione della Natività di Gesù, se si considera che Stefano é stato il primo dei sette diaconi, scelti dagli Apostoli, affinché li aiutassero nella diffusione dei princìpi del Vangelo e nell’esercizio del ministero della fede. Un’opera di divulgazione ad ampio raggio, che significò la formazione delle prime chiese locali nelle Terre della Palestina, fino alla formazione delle coordinate del pensiero cristiano, di cui è importante artefice e protagonista quel Paolo, convertito sulla “strada di Damasco“, per approdare successivamente sulle coste della Campania, prima di giungere a Roma, e ch’era stato Saul di Tarso, tenace ed implacabile persecutore dei cristiani, tra i quali, come si vedrà, anche Stefano, che richiama l’etimo greco di stéfanos-stéfanou, la corona, simbolo di dignità sacerdotale o da intendere come corona floreale e ghirlanda quale premio e riconoscimento di meriti, gloria, onore sociale. E, a sua volta, Paolo sarà martirizzato in una delle tante persecuzioni anti-cristiane di quella Roma imperiale, del cui sistema di potere era stato assertore tenace e fervido. Venerato dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa- ed é un dato di notevole portata, per quanto unico nella storia delle religioni monoteiste- Stefano, ebreo di nascita, é il Protomartire delle cristianità, avendo per primo immolato la vita, per testimoniare con limpida coerenza l’autenticità della fede- personale e pubblica in Cristo- con la diffusione e la pratica degli ideali del Vangelo. Sono gli Atti degli Apostoli, a fornire il racconto del suo martirio, eseguito, al di fuori delle mura della città santa, qual era Gerusalemme, con la tremenda ed atroce lapidazione, secondo la tradizione locale, alla presenza proprio di Saul di Tarso, prima che maturasse la conversione ai valori evangelici. Il martirio di Stefano, si fa risalire al 35 o al 36, in coincidenza con il vuoto di potere politico-amministrativo, prodottosi in Palestina, ribollente di fermenti, avversi alla romanizzazione, di cui erano promotori tenaci gli Zeloti, una delle tante tribù del territorio, di cui avrebbero fatto parte, ma la tesi è controversa sul versante della verifica storica, alcuni apostoli e lo stesso Gesù; vuoto di potere, innescato dalla deposizione del governatore Ponzio Pilato, verso il quale era diventata decisamente e ostile la popolazione per gli aspri metodi repressivi, che aveva adottato, per sedare e domare la rivolta, che ebbe come epicentro il monte Garazim. E l’esercizio del controllo sociale e morale sulle comunità locali come del potere risiedeva, in larga misura, nelle volontà del Sinedrio dei sacerdoti, quella che nel linguaggio corrente si chiamerebbe …casta, tutt’altro che refrattaria ed insensibile a “compromettersi” con il potere di Roma, avallando la pax, imposta dalle sue quadrate legioni. La causa determinante della lapidazione, a cui fu sottoposto, viene attribuita all’avversione nutrita verso Stefano da alcuni di quei liberti, probabili discendenti degli ebrei della diaspora e di matrice ellenistica, che Pompeo aveva schiavizzato nel 69 a.C. e che si erano affrancati, “comprando” la libertà, pagandone il riscatto ad alto prezzo. Ma sul punto, è ben più esplicativa e convincente la narrazione degli Atti degli Apostoli, che rappresenta come e quanto fosse coinvolgente la predicazione di Stefano, nel promuovere la conversione degli ebrei alla pratica degli ideali del Vangelo, con adesioni crescenti e diffuse, tanto che la sua opera era considerata in grado di alterare e sovvertire gli equilibri dei poteri sociali e politici esistenti di cui il Sinedrio era garante ed intermediario, nello stesso tempo, verso i romani conquistatori. Una missione, quella che veniva attuando Stefano, che determinò l’aspra e metodica reazione immediata del potentato degli ebrei ellenistici. Una reazione, tradottasi nello stillicidio della denigrazione e della diffamazione senza scrupoli, tanto da far maturare verso Stefano l’avversione della gente, fino all’accusa di ” pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e Dio“. Un meccanismo di marginalizzazione e d’isolamento, posto in essere ad arte, che sempre é stato utilizzato, si ripete e si ripeterà nelle umane vicende di conservazione e conquista del potere, alimentando o pregiudizi, maldicenze di ogni genere e soprattutto sentimenti di ostilità verso le “vittime” da colpire, per il loro anti-conformismo ed anelito di libertà nella giustizia, assolutamente inconciliabili con i detentori di ogni forma d’esercizio del potere, laico o religioso che sia,, fino a svilire ed offuscare la normale capacità di discernimento della gente comune. E é quello che accadde per Stefano, diacono. Il clima così generato era del tutto funzionale e abilmente strutturato, perché gli “anziani e gli scribi” lo catturassero, conducendolo con forza al cospetto dei sacerdoti del Sinedrio. Non era un processo formalmente inteso, quello a cui fu sottoposto, secondo il formalismo rituale dell’epoca. E’ certo, però, che i sacerdoti chiesero a Stefano conto delle accuse, che gli erano rivolte nelle dicerie correnti tra la gente, confermate dai soliti testimoni, falsi e prezzolati, che non…mancano mai. Stefano, non subì passivamente né l’ipocrita sicumera né la sinuosa arroganza dei sacerdoti, anzi pronunciò un discorso di nitide argomentazioni- il più lungo, trascritto negli Atti degli Apostoli- ripercorrendo i passaggi delle Sacre scritture, nelle quali traspare l’avvento del Giusto , com’era proclamato Gesù, a cui i patriarchi ed i profeti hanno aperto la strada; quei patriarchi, profeti, annunciatori dell’avvento, a cui ” gli ebrei avevano sempre risposto con durezza di cuore“, chiusi nella corazza del loro potere e della loro egoistica autoreferenzialità. Ancor più diretto ed efficace, Stefano fu nel rivolgersi ai sacerdoti del Sinedrio, con linguaggio secco e perentorio: ” O gente testarda e pagana, nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo, come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti, i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che avevano annunciato la venuta del Giusto, del quale ora siete divenuti traditori ed uccisori; voi, che avete ricevuto la Legge, per mano degli angeli, non l‘avete osservata“. Parole sferzanti e coraggiose, rispetto al contesto del Sinedrio e all’atteggiamento generale dei presenti in palese ostilità, per rivendicare la novità del Vangelo, per un’umanità rinnovata nell’amore, nella giustizia e nell’uguaglianza e nella dignità delle persone; parole,, che infiammarono rancore e ‘odio . Stefano fu preso a viva forza e a strattoni violenti fu trascinato fuori della cinta muraria di Gerusalemme, dove fu ucciso a colpi di pietra.
Un sacrificio umano, i cui esecutori, compiuta la missione di morte, si liberarono dei loro mantelli,che deposero ai piedi di quel Saul, di cui si é detto e che sarà proclamato l’Apostolo delle genti, per aver disvelato compiutamente nelle azioni, nella predicazione e nelle Lettere l’universalità della cristianità, di cui i Paesi dell’Arco latino del Mediterraneo saranno la culla e la matrice d’espansione, in Europa e nel mondo. In realtà, la lapidazione non corrispondeva ad una vera e propria sentenza di condanna, emessa con il rispetto dei formalismi di rito; né poteva essere tale, dal momento che il Sinedrio non aveva funzionari di..Tribunale. Di certo, però, corrispose in pieno alla volontà di quanti volevano l’eliminazione non solo della parola, ma anche fisica di Stefano. E con loro, il Sinedrio non si …sporcò le mani. Se le sporcarono, i lapidatori, gente comune e fanatizzata, in ragione delle usanze locali Come a dire, una delle tante modalità di giustizia sommaria, di cui s’intesse la tragicità della storia dell’umanità ed inflitte dal potere, autocratico, totalitario e fondamentalista che sia, ai singoli come ai popoli e alle etnie. E, per integrare la comprensione del frammentato scenario prospettato, va ricordato che le leggi di fatto e della codificazione penale, attuate da Roma soprattutto sui territori occupati e conquistati contemplavano la condanna alla straziante crocifissione, per tutti coloro che si fossero resi responsabili di propagare idee e compiere azioni, in grado di de-strutturare e scomporre sia l’ordinamento dello Stato che la romanizzazione dei popoli. La stessa condanna alla crocifissione di Gesù – e non la lapidazione, che appartiene alla consuetudine giudaica- si “legge” alla luce della sola professione dei valori del Vangelo, assertori soprattutto dell’uguaglianza per gli uomini ed i popoli nella libera e civile convivenza, in netta e radicale antitesi con il modello di potere dominante nella società romana e romanizzata. Un modello, di cui la schiavitù e lo sfruttamento intensivo del lavoro degli schiavi costituivano sul piano normativo e di legislazione, assi strutturali e fondamentali, come di tutte le società del tempo e preesistenti. Assi, su cui si reggeva il potere economico e la funzione di dominio sociale per le oligarchie che lo esercitavano. E verso gli schiavi, a cui non era attribuita alcuna remunerazione, l’unica garanzia fornita era il vitto, perché potessero rinnovare le energie da utilizzare nelle fatiche quotidiane, oltre che la precarietà degli alloggi, che il dominus procurava loro. Un’antitesi netta, quella del Vangelo, rispetto alla schiavizzazione di uomini e popoli, con tutto quanto ne conseguiva, resa ancora più marcata dalle idealità e dai princìpi della trascendenza di Dio; idealità e princìpi, che Roma non concepiva affatto e meno che meno riconosceva, tanto che, ad iniziare, da Cesare Ottaviano Augusto divinizzava e rendeva sacri gli imperatori, con gli onori delle are; si deve proprio a Cesare Ottaviano Augusto, che esercitò il potere per circa mezzo secolo, l’organico ed efficiente assetto politico-amministrativo e legislativo del principato, inteso nella comune vulgata come impero, conferito a Roma. Ed è quell’Augusto, che Luca Canali, tra i più qualificati ed interessanti, anche se sempre più pochi cultori di romanistica dei nostri giorni, definisce “braccio violento della storia” per il cinismo praticato nell’esercizio del potere. E’ l’ Augustus ac divus, morto due mila anni fa, quando si avviava compiere i 76 anni d’età, nel 14 d.C. a Nola, la città, con cui la ricca famiglia degli Ottavi – originaria di Velletri – aveva consuetudine di rapporti, a quanto sembra, per i poderi terrieri, di cui vi disponeva.
La leggenda di Tecla. Le vicende storiche, che permettono d’inquadrare la figura del Protomartire, nel suo tempo e l’esemplarità della sua azione, hanno anche il contrappunto delle leggende, che trasfigurano la realtà, di cui, tuttavia, sono sintesi simboliche, dense di significati e messaggi da decifrare e comprendere. E nelle trame delle leggende come dei miti e della favole scorre il vissuto popolare, la cui saggezza, umile e serena, é specchio di grandi verità, che i saperi accademici ed “intellettualistici” sminuzzano, a loro uso e consumo. La leggenda di Stefano si lega a quella della madre, Tecla. E racconta che, in adorazione di Gesù Bambino, appena nato nella grotta di Betlemme, c’erano pastori, ma anche tante donne che avevano con sé i figli, perché fossero benedetti dal Messia. Tra le donne c’era, Tecla, giovane sposa, che non aveva avuto figli, ma desiderava averne uno. Per non essere da meno dalle altre donne, presa una grande pietra, l’avvolse in uno scialle, sulla cui sommità pose una piccola cuffia; e la teneva sulle braccia, come se fosse un bambino nato da poco. Al cospetto di Gesù Bambino, dallo sguardo radioso e sorridente, la giovane sposa si commosse e si mise a piangere, in ginocchio, davanti alla grotta. Si rialzò, per far ritorno a casa. Maria, che aveva ben intuito l’innocente inganno e la sofferenza della donna, le domandò ” Tecla, che cosa hai fra le braccia?”. Sentendosi scoperta, la giovane rispose: “Allatto un figlio maschio“. “Suvvia– le replicò Maria in tutta serenità – scopriti il seno ed allatta tuo figlio; da questo momento il tuo desiderio é stato esaudito. La tua pietra é diventata un bel bambino“. Tecla sollevò. timidamente lo scialle, che avvolgeva la pietra e restò meravigliata per il miracolo ch’era stato compiuto per lei: tra le braccia aveva il tanto atteso e desiderato primo figlio. Ma Maria aggiunse ancora: ” Ricordati ch’egli é nato da una pietra e morirà a colpi di pietra“. Il bambino era Stefano, che diverrà l’uomo pieno di fede e di Spirito Santo . Il Protomartire della cristianità, secondo la profezia, che la leggenda attribuisce a Maria.