di Romeo Lieto
Corri Mimì, corri, il padre incitava il figlio di sei anni, a correre per non perdere la corsa del primo treno per Napoli, dove in giornata avrebbero fatto visita ad un parente e proseguire per Roma, con altro treno delle ferrovie dello Stato
Inizio maggio del 1944, mancano pochi minuti alle cinque del mattino, padre e figlio con la valigia di cartone, legata con solido spago, portata in spalla dal padre, corrono verso la stazione della Circumvesuviana.
Sul primo treno i soliti viaggiatori, operai, qualche impiegato che deve spostarsi su altro mezzo per l’ufficio, dei commercianti e dei piccoli negozianti che vanno in città per approvvigionarsi di merce. Si arriva a Napoli quando la citta inizia a svegliarsi con i primi frastuoni, con lo stridio delle serrande ed il cigolare dei vecchi portoni.
Per Cassino la linea è interrotta, è possibile raggiungere Roma solo sulla linea di Formia. Si parte di sera e si arriva a Roma il giorno seguente, sono in attesa i compagni di giochi di Mimì, Mario, Miriam e Samuel ed insieme raggiungono la casa del Diplomatico militare, custodita dal padre di Mimì.
Mimì, con i suoi tre amici, giocano avanti alla casa colonica, dove vivono anche una vecchia cuoca e la nipote Gina, già governante del figlio del Diplomatico, poliglotta, e parla inglese, tedesco e russo, sempre impegnata per commissioni per Roma ed a volte portava i ragazzi, al Giardino zoologico, a Villa Borghese, al Vaticano ed altri posti.
Un giorno, mentre il gruppo usciva dal colonnato di San Pietro, Gina viene avvicinata da un uomo su una moto sidecar, seguì un breve colloquio e si avvertì, nella donna, un certo nervosismo. Dopo poco arrivò una macchina e tutti vi salirono. La macchina correva tanto che nelle curve i ragazzi venivano sballottati a destra ed a sinistra, ridevano e non immaginavano il motivo di tanta fretta. Raggiunta la Villa fecero scendere solo Mimì, mentre Mario, Miriam e Samuel, rimasero in macchina e proseguirono il viaggio verso la casa di Mario. I tre in macchina ridevano e salutarono Mimì con le mani aperte e le labbra poggiate al vetro della vettura. Da quel giorno i ragazzi non vennero più a giocare con Mimì e Gina, mancava da casa da giorni. Una mattina, Mimì attraversò l’orto e raggiunse la recinzione che divideva le proprietà. Attraverso la rete chiamò ad alta voce Mario, ma nessuna risposta vi fu dalla casa e non solo, le imposte erano chiuse, non vi era più il cane che abbaiava ed i cigni erano scomparsi dalla vasca, la villa appariva abbandonata. Mimì malinconico tornò a casa e si rivolse alla vecchia cuoca che alla domanda borbottò: Non sono fatti tuoi.
Dopo due settimane Gina rientrò e comunicò che aveva lasciato le famiglie sul confine con l’Austria, per varcare il confine di Stato e raggiungere la loro casa in Polonia.
Nelle estati successive del 1945, 46 e 47, Mimì era sempre tornato a Roma ma non aveva più ritrovato Mario, Miriam e Samuel, dei quali conservata l’immagine dei tre appiccicati al vetro della macchina.
LA RICERCA INUTILE. LA DEPORTAZIONE PIU’ CHE PROBABILE . LA RAPPRESAGLIA NAZISTA DOPO L’ATTENTATO DI VIA RASELLA
Nel settembre del 1947 per problemi legali con i partigiani locali, che occuparono la proprietà del Diplomatico, assumendo, che erano beni profitti di guerra e quindi requisibili. Il padre di Mimì’ rientra in paese.
Negli anni sessanta, Mimì torna a Roma alla ricerca dei suoi amici. Sul posto, non esiste più la grande villa con il giardino, la villa della famiglia di Mario, la casa dei fratelli Miriam e Samuele. Solo a lato di un viale Mimì scorge isolato, porzione di vecchio muro alla cui sommità, una linea orizzontale scura indicava il livello dell’acqua, era porzione del muro della concimaia
Prima di morire, il padre di Mimì faceva sempre il nome di Mario, desiderava tanto avere sue notizie e conoscere il destino delle famiglie. La madre di Mario era laureata in fisica ed il fratello, padre di Miriam e Samuele, laureato in chimica ed insegnavano in un Liceo di Roma. Dopo il noto attentato di Via Rasella del marzo del 44, forse furono sospettati, ingiustamente, e costretti a fuggire da Roma, per loro scelta, nella direzione sbagliata, andando al nord invece che al sud, dove avrebbero avuto protezione. All’epoca, era difficile capire in quale direzione andare, la stessa Chiesa non sempre era in grado di fornire informazioni giuste.
Dei ferrovieri di Udine, che guidavano i treni su ordine del comando tedesco, davano notizie dei ragazzi e delle famiglie; arrestate ad Udine, ma che erano riuscite a fuggire in occasione di un’insurrezione in Slovacchia dal treno diretto ad Auschwitz. Notizie fornite ad un Monsignore, tale Padre Matteo, Generale dell’Ordine Agostiniano. Nel duemilauno, Mimì con dei ragazzi polacchi, va in Polonia, in pellegrinaggio alla Madonna di Jasna Gòra, a cui era devoto Papa Giovanni Paolo II, nella città di Czestochowa ed a visitare il Museo di Auschwitz. E’ ospite della famiglia Polacca, in una casetta in piena campagna, nel paese di Szerzyny a 400 Km da Cracovia, a 250 da Auschwitz ed a 350 da Czestochowa.
PELLEGRINAGGI DI FEDE E AMORE
La visita al Santuario di Jasna Gòra con i germani Dudek Mario, Agnese ed Angelica, impegna l’intera giornata di mercoledì. In Chiesa la messa venne annunciata da un sonoro frastuono di trombe seguito dall’alzata del pannetto che copre l’immagine della Vergine con il Bambino in un quadro dorato su un sontuoso altare.
Il giorno seguente, si va in visita ad Auschwitz che è in lingua tedesca, mentre i Polacchi chiamano la località Oswiecim, che indica una vasta area. Si arriva al Museo e si passa sotto l’arco in ferro con la scritta “Arbeit macht Frei” (il lavoro rende liberi).
Il gruppo entra in alcuni edifici dove vi sono stanze di grosse dimensioni con allocati alle pareti una serie di letti a castello a tre piani con telaio in legno e telo semirigido che lasciano trasparire il preesistente vecchio sudiciume. In delle camerate, alle pareti sono esposte centinaia di foto di persone deportate la cui immagine indica un precario stato di salute, alcune sembrano degli scheletri. Vi sono camere in cui sono ammucchiati tanti abiti alla rinfusa di uomini, donne e bambini, appartenuti a persone di cui non se ne conosce la fine.
I letti, le foto, gli abiti suscitano in Mimì tanti pensieri su persone che sembrano come conosciute; si prosegue nella visita e si entra in una camerata in cui è ammassato un enorme mucchio di scarpe alto quasi due metri, dove accosto ad una parete Mimì scorge un sandalo appartenuto ad una bambina con le fettuccine di copertura colorate in giallo e verde. E’ a questa vista che torna alla mente di Mimì l’immagine dei tre ragazzi accosti al vetro della macchina. Quei sandaletti sono uguali a quelli calzati dalla bambina Miriam, regalategli dalla zia, tante scarpe di bambini e di donne che sembravano appartenute a persone conosciute nella sua infanzia. La sua mente fu sconvolta alla vista di tanti indumenti che immaginava indossati da persone conosciute, davanti ai suoi occhi compariva sempre l’immagine dei suoi amichetti che gli facevano le boccacce appiccicati al vetro della macchina.
Mimì non ha più la voglia e la forza di guardare, di continuare la visita di quei luoghi, gli tremano le gambe e chiede ai compagni di viaggio di sospendere la visita ed andare via. Per uscire dal campo passano nei pressi delle bocche del forno crematorio, e qui, Mimì ricorda quanto gli aveva raccontato un vecchio militare addetto alla introduzione delle salme, su un carrello in ferro.
Sulla strada del ritorno si fa una breve sosta a Cracovia per la visita alla famosa Università e poi il rientro. La notte Mimì non dorme, avanti agli occhi compaiano di continuo i luoghi visitati con il loro silenzio, i sandali di bambina ed i tanti indumenti di uomini e donne che un giorno vi avevano vissuto.
Dopo quanto visto ad Auschwitz, a scombussolare ancora la mente e l’animo di Mimì, vi contribuì un fortuito incontro avvenuto a seguito della foratura di uno pneumatico dell’auto, nel viaggio di ritorno nel territorio dello Stato Slovacco con un Prete che parla un poco di italiano che va a chiamare il titolare dell’officina meccanica a circa dieci Km. Durante la riparazione della gomma, Mimì si intrattenne con il Prete che racconta di essere di religione Ortodossa e di desiderare tanto di visitare Roma, in quanto, a suo dire, il padre, aveva vissuto parte dell’infanzia a Roma ed ora era andato a vivere con una figlia sposata in Ucraina, che era polacco anche se nato in Italia, che aveva perso i genitori in una stazione ferroviaria in Slovacchia a seguito di un’insurrezione di migliaia di persone,
Il racconto del Prete scosse la mente di Mimì che chiese al Prete come si chiamava e questo rispose: Leonardi e desiderava visitare il Vaticano e Pompei per averne sentito parlare dal padre e visto alcune foto in una rivista. Mimì incuriosito ed affascinato è intenzionato a saperne di più, sempre alla ricerca di tracce di Mario e famiglia, chiede al Prete un suo recapito e lui gli risponde che al momento non disponeva di una sua dimora fissa in quanto appoggiato occasionalmente al altro Prete, ma che era interessato a contattarlo sul numero fornitogli da Mimi. Cosa mai avvenuta.
Oggi, Mimì attende ancora, sperando che, Mario con i cugini Miriam, Samuel con i rispettivi genitori, a seguito della nota sommossa avvenuta in una stazione ferroviaria in Slovacchia, nel 1944, sono salvi ed in vita da qualche parte.
Dopo aver visitato Auschwitz, entrato in quei luoghi così tetri, visto quelle immagini e foto alle pareti, i sandali di bambini, indumenti, il silenzio di quei luoghi di sterminio, mai dimenticherà. Ancora stenta a credere a quello che si è potuto verificare in quei tempi ed in quei luoghi, quelle poche parole ed i piccoli spiragli raccontati dal prete ortodosso, lasciano sperare che Mario è vivo e che possa essere il padre del prete, al quale il destino ha evitato di subire quelle atrocità. Se così fosse, quanto sarebbe bello rivedersi e conoscere la storia intercorsa da quel momento del distacco all’oggi, attraverso epoche tanto diverse.