31 marzo: san Beniamino di Persia, vissuto in Persia verso il 400 d.C. Anche il re persiano Iezdegerd I, adoratore del fuoco e del sole, perseguitava i cristiani, e il diacono di Ergol (Persia) Beniamino fu da lui tenuto in carcere per due anni. Doveva essere un personaggio importante, anzi addirittura popolare, perché l’ambasciatore dell’imperatore romano Teodosio il Grande, che negoziava un trattato di pace con il re persiano, pose tra te condizioni anche quella di liberare l’illustre prigioniero. Il re Iezdegerd I, a sua volta, fece una controproposta, avrebbe liberato Beniamino se questi si fosse impegnato a cessare del tutto la sua opera di apostolato tra i persiani; e in questo senso parlò al prigioniero. La risposta dell’intrepido cristiano, fu: «Non posso chiudere agli uomini le fonti della Grazia del mio Dio, finché sarà in mio potere, illuminerò coloro che sono ciechi, mostrando loro la luce della verità. Non farlo, sarebbe incorrere nei castighi riserbati a coloro che nascondono i talenti del loro padrone». Si riferiva alla parabola evangelica del padrone che dà ai suoi servi i talenti d’oro, e in queste parole precise e decise, egli tracciava la linea di condotta di ogni cristiano, che non è solo depositario e custode dell’oro della verità, ma deve metterlo a frutto, donarlo al prossimo, insegnando e illuminando. Fu liberato, malgrado queste sue ferme parole, per la pressione dell’ambasciatore romano; ma Beniamino non perse tempo nei timori, e, come aveva dichiarato, riprese subito a istruire e a battezzare gli adoratori del fuoco. Il re persiano, libero dalla parola data, poté così di nuovo catturarlo, e accusato di aver incendiato un “pireo” (tempio dedicato al culto del fuoco); gl’impose di rinnegare la fede, sacrificando al simulacro del sole. I romani, come si sa, giustiziavano i condannati, secondo l’uso militare, decapitandoli con la spada. I persiani, invece, come molti altri popoli orientali, escogitavano di volta in volta atroci supplizi con i quali finivano i loro prigionieri. E di raffinata atrocità fu anche il supplizio riserbato a Beniamino, che ebbe il corpo trapassato da spilloni e sotto le unghie di bacchette di legno acuminate. Beniamino morì, verso il 420, per le orribili ferite riportate.
31 marzo: san Guido di Pomposa (Guido degli Strambiati), nacque a Casamari (Ravenna) nel 970, da giovane si dedicò allo studio delle arti liberali e nella musica, senza alcuna intenzione di entrare nella Chiesa. Deciso ad abbandonare lo stato laicale per dedicarsi a una qualche forma di vita religiosamente impegnata, Guido si recò in pellegrinaggio a Roma, da dove avrebbe voluto raggiungere la Terrasanta. Questo progetto non si realizzò; Guido si trattenne a Roma per diverso tempo, ricevette la tonsura ed entrò a far parte del clero romano. Fece poi ritorno a Ravenna per abbracciare lo stato monastico sotto la guida del monaco eremita Martino, abate di Pomposa. Alla scelta di Guido di mettersi alla scuola di Martino non era probabilmente estranea la fama di cui il pio eremita godeva anche fuori dell’ambiente locale, se è vera la notizia che il suo incarico a Pomposa era stato voluto dalla Curia pontificia. Il monastero di Pomposa, di osservanza benedettina, risentiva nella sua organizzazione dei principi della riforma monastica di san Romualdo che prevedeva, accanto al cenobio, l’esistenza di un eremo nel quale i monaci più zelanti ed esperti, desiderosi di compiere un’esperienza religiosa in solitudine e raccoglimento, potessero ritirarsi a vivere per qualche tempo, continuando a far parte della comunità monastica. L’abate Martino guidò Guido nei suoi primi anni di formazione monastica, che si svolse sia nell’eremo sia nel cenobio; qui ricoprì diversi uffici e incarichi, acquistando una diretta conoscenza dei meccanismi di funzionamento di un ente monastico. Nel 1001 Guido divenne abate, secondo alcuni priore, del monastero di San Severo in Classe di Ravenna. La sua virtù e il suo impegno nel promuovere l’esatta osservanza della regola gli attirarono l’ostilità di alcuni monaci insubordinati, i quali riuscirono a convincere il vescovo di Ravenna a deporlo dalla carica. Guido non reagì, ma intensificò il digiuno e la preghiera. Il presule, quando giunse al monastero per procedere alla destituzione, si rese conto di come stavano le cose e confermò Guido nella carica. Sotto la sua guida, il monastero fiorì e divenne uno dei più importanti del nord Italia, conoscendo un periodo di grande sviluppo, sia nella costruzione di nuovi edifici, che per l’influenza culturale e spirituale. La centralità culturale e politica di Pomposa sotto Guido è testimoniata anche dagli intensi rapporti con l’aristocrazia, fra i quali sono particolarmente significativi quelli con il marchese Bonifacio di Canossa, padre di Matilde di Canossa. Con l’elezione di Enrico III nel 1045 il coinvolgimento di Guido nel progetto imperiale di riforma divenne pieno e aperto. La collaborazione fra Enrico e i monasteri emiliani e romagnoli, tra cui soprattutto Pomposa, ebbe poi importanza notevolissima nella politica italiana del sovrano l’anno successivo, quando per la prima volta scese in Italia per essere incoronato e per risolvere i gravissimi problemi della cattedra pontificia, contesa in quel momento da tre papi. Una missione venne inviata a Guido per sollecitare un incontro personale con il sovrano in occasione del suo viaggio in Italia. Alla Dieta convocata da Enrico a Pavia fu infatti espressamente invitato anche G., che si mise in viaggio ma, ormai anziano, si ammalò lungo la strada. Morì a Borgo San Donnino (attuale Fidenza) il 31 marzo 1046.