a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 11 agosto la chiesa santa Chiara d’Assisi, nacque ad Assisi nel 1193 circa, da una nobile e ricca famiglia. Ha appena 12 anni Chiara quando Francesco d’Assisi compie il gesto di spogliarsi di tutti i vestiti per restituirli al padre Bernardone. Conquistata dall’esempio di Francesco, la giovane Chiara 7 anni dopo, nella notte della domenica delle Palme, del 18 marzo 1212, quando aveva circa 18 anni, fuggì da una porta secondaria della casa paterna, situata nei pressi della cattedrale di Assisi, per unirsi a Francesco e ai primi frati minori presso la chiesetta di Santa Maria degli Angeli, già da allora comunemente detta la Porziuncola. Francesco le taglia i capelli e le fa indossare il saio francescano, per poi condurla al monastero benedettino di San Paolo, a Bastia Umbra, dove il padre tenta invano di persuaderla a ritornare a casa. Si rifugia allora nella Chiesa di San Damiano, in cui fonda l’Ordine femminile delle «povere recluse» (chiamate in seguito Ordine delle Clarisse) di cui è nominata badessa e dove Francesco detta una prima Regola. Qui sotto le dipendenze del vescovo Guido, Chiara fu raggiunta anche dall’altra sorella, Beatrice e dalla madre Ortolana, oltre che da ragazze e donne, tanto che presto furono una cinquantina. A San Damiano trascorre 42 anni, dei quali 29 quasi sempre a letto perché ammalata. Il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e protettore dei Frati Minori, le dà una nuova regola che attenua la povertà, ma lei non accetta sconti: così Ugolino, diventato papa Gregorio IX le concede il “privilegio della povertà”, poi confermato da Innocenzo IV con una solenne bolla del 1253, presentata a Chiara pochi giorni prima della morte. Austerità sempre. Per due volte Assisi venne minacciata dall’esercito dell’imperatore Federico II che contava, tra i suoi soldati, anche saraceni, che tentarono di violare il convento di San Damiano. Chiara, in quel tempo malata, fu portata alle mura della città con in mano la pisside contenente il Santissimo Sacramento, a quella vista, l’esercito si dette alla fuga. Morì l’11 agosto 1253, a 60 anni; patrona della televisione e delle telecomunicazioni.
11 agosto: santa Filomena di Roma, il giorno 25 maggio 1802, scavando nelle catacombe romane per cercare reliquie di santi, come allora era usanza, si scoprì nel cimitero di Priscilla, a Roma, un loculo chiuso con tre mattoni, sui quali era dipinta in rosso un’iscrizione: PAX TECUM FILUMENA LUMENA «La pace sia con te, Filomena». Dentro il loculo si trovò un corpo, che fu attribuito ad una giovinetta, ed un’ampolla, che si credette contenesse sangue. Le ampolle ritrovate nei sepolcri si ritenevano allora segni indubitabili di martirio. Quel sepolcro fu giudicato frettolosamente appartenente ad una martire. Le ossa che si rinvennero furono trasportate in città e collocate, insieme alle tegole con l’iscrizione, nel deposito adibito a reliquiario, per essere poi trasferite in qualche chiesa (come allora era usanza fare). Si concluse che in quel luogo era stata tumulata una donna di nome Filumena. La si ritenne perciò martire, anche perché sui mattoni erano dipinte, oltre la suddetta iscrizione, un’ancora ed alcune frecce, che vennero interpretate come simbolo di martirio. Nell’anno 1805, il canonico don Francesco De Lucia, desideroso di possedere un “corpo santo”, con l’ausilio del vescovo di Potenza, monsignor Bartolomeo De Cesare ottenne la reliquia in questione, che trasportò a Mugnano del Cardinale, nella diocesi di Nola, La reliquia, fu collocata in una cappella laterale della chiesa Madonna delle Grazie dove, a tutt’oggi si trova, diede origine ad un culto assai popolare. Trascorso qualche tempo, seguendo alcune rivelazioni di una pia religiosa napoletana, una tal suor Maria Luisa di Gesù, terziaria domenicana, il canonico prestò fede al racconto di una vita di santa Filomena. Secondo rivelazione della pia religiosa, l’eroina Filomena era contemporanea dell’imperatore Diocleziano e figlia di un re della Grecia. Aveva 13 anni quando andò a Roma con i genitori per incontrare l’imperatore romano Diocleziano, lui si invaghì di lei e le offrì il trono di imperatrice di Roma. Filomena però, avendo consacrato la sua verginità a Cristo, rifiutò l’offerta e pertanto venne sottoposta a diversi tormenti, dai quali scampò miracolosamente, per poi venire uccisa con decapitazione. Questa rivelazione, messa per iscritto a cura di monsignore Navarro Luigi, cappellano della corte borbonica di Napoli, fu pubblicata nell’anno 1833 con il permesso del Sant’Ufficio e la Congregazione della Sacra Romana ed Universale Inquisizione approvò la rivelazione il 21 dicembre del 1833. Non mancarono i prodigi ed i miracoli, Paolina Jaricot, fondatrice dell’Opera della Propagazione della Fede e del Rosario vivente, volle, inferma, portarsi dalla Francia a Mugnano, dove il 10 agosto 1835 ebbe completa guarigione. Celebri devoti della santa furono: Leone XII, Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, san Pio X, san Giovanni Battista Maria Vianney, la serva di Dio Paolina Jaricot, la serva di Dio Maria Cristina di Savoia, il beato Bartolo Longo e san Pio da Pietrelcina.
11 agosto: santa Susanna di Roma, nacque nel III secolo. Oriunda della Dalmazia, era una nobile romana figlia del sacerdote Gabino, cugino dell’imperatore Diocleziano. Come il padre e lo zio san Caio (poi papa), Susanna convertitasi alla religione cristiana, si consacrò a Dio offrendogli la propria verginità. Diocleziano per legare maggiormente a sé il figlio adottivo Galerio Massenzio, suo designato successore, gli promise in moglie Susanna, che fedele al suo proposito, rifiutò. La Passio racconta che Susanna, convertita al cristianesimo e consacrata a Dio con l’offerta della propria verginità, rifiutò la proposta di matrimonio, confortata dal padre e dallo zio, il papa Caio. L’imperatore Diocleziano stava cercando una sposa per suo figlio Massimiano. Mandò uno zio di Susanna, Claudio, che ricopriva una carica a corte, ad informare Gabinio della volontà dell’Imperatore che Susanna divenisse sposa di Massimiano. La giovane, però, si oppose, dichiarandosi sposa di Cristo e contraria ad ogni matrimonio terreno; quando lo zio si presentò per discuter della questione e cercare di convincerla, si avvicinò per baciarla in saluto ma ella si ritrasse. Protestò che era solo un segno di affetto naturale, ma lei rispose: «Non mi importa se mi baci. È la tua bocca sudicia che non posso sopportare. È piena di idolatria». «Come posso pulirla?» domandò Claudio. «Pentiti e fatti battezzare» fu la risposta. Claudio fu talmente impressionato dal rifiuto di Susanna ad un matrimonio così conveniente che chiese di venire istruito nella fede cristiana e si fece battezzare insieme a sua moglie e ai due figli. Poi liberò i suoi schiavi e diede i beni ai poveri. Non ricevendo più notizie a corte, Diocleziano mandò Massimo, fratello di Claudio e anch’egli dignitario imperiale, per cercare Susanna e avere informazioni sull’uomo, che pensava ammalato. Massimo trovò il fratello effettivamente molto emaciato, ma a motivo delle penitenze cui si era sottoposta da cristiano, e Claudio gli comunicò la decisione di Susanna; insieme la andarono a trovare per poi discutere del problema con Gabinio e il pontefice, ma tutti e quattro i fratelli si ritrovarono d’accordo a non voler forzare la ragazza. Anche Massimo fu battezzato e diede i suoi beni ai poveri. Quando Diocleziano venne a sapere del rifiuto di Susanna e della conversione dei suoi due sottoposti, si arrabbiò molto. Disse ad uno dei suoi favoriti, Giuliano, che portava un antico rancore verso la famiglia, di arrestarli e di fare di loro ciò che voleva. Giuliano ordinò che Claudio e Massimo fossero bruciati vivi e i loro corpi gettati in acqua. Susanna fu decapitata in casa e suo padre fu martirizzato. Morì l’11 agosto 294.
11 agosto: sant’Equizio amiternino vissuto fra il 480 e il 550 nell’odierno comune di Pizzoli (L’Aquila-Rieti-Tivoli), non si hanno grandi notizie della sua vita, abate fondatore e coordinatore di numerosi monasteri nell’area della Sabina e della Valle dell’Aterno, avendo rivestito l’importante ruolo di precursore e ispiratore del movimento monastico italico, la cui regola fondata su alcuni punti basilari – come la preghiera, la lettura della Sacra Scrittura, la mortificazione, il lavoro manuale e intellettuale, l’evangelizzazione – sarà in gran parte ripresa e canonizzata da san Benedetto da Norcia. La sua evangelizzazione, già efficace per la condivisione nel lavoro dei campi, era messa in opera con il sussidio delle Sacre Scritture che portava sempre con sé, mediante una specifica predicazione, secondo un mandato ricevuto dal cielo, una circostanza questa che gli procurò la singolare persecuzione dagli organi ufficiale della Chiesa, sotto il pontificato di Agapito I. Riferisce al riguardo san Gregorio Magno nei suoi Dialoghi: «La sua passione era quella di ricondurre le anime a Dio, tanto che, mentre portava le responsabilità di più monasteri, si recava da una chiesa all’altra, da un villaggio all’altro, ovunque insomma, per infiammare il cuore di chi lo ascoltava all’amore della patria celeste. La predicazione di Equizio fece notizia anche a Roma. Ebbene, in quel tempo alcuni ecclesiastici fecero le loro rimostranze, con chiare adulazioni, al vescovo di questa sede apostolica, dicendogli: «Chi è questo zoticone, che si è arrogato il diritto di predicare e presume, ignorante com’è, di usurpare il ministero della parola proprio del nostro Pastore? Si mandi, dunque, se crede, qualcuno che lo conduca qui, così che conosca la forza e il rigore dell’autorità ecclesiastica». Il papa acconsentì alla richiesta degli accusatori e incaricò un certo Giuliano, vescovo della Sabina, di andare da Equizio per condurlo, con il dovuto riguardo, a Roma. Pervenuto in fretta al monastero di San Lorenzo, il messo papale non trovò in casa Equizio. Chiese a dei monaci copisti al lavoro dove fosse l’abate. Gli risposero: «Sta falciando il fieno». Giuliano mandò un servo a cercarlo. Questi, sceso giù per i prati e, avvistato un gruppo di falciatori li apostrofò chiedendo gli si indicasse chi fosse Equizio. Non appena ebbe modo di avvicinarlo, il servo perse tutta la sua baldanza e andò tutto tremante a prostrarsi ai suoi piedi, riferendogli il motivo della sua venuta. Senza scomporsi, Equizio, per tutta risposta, considerando la fatica, per il lungo viaggio, si premura di ordinare al servo di prendere per loro del fieno verde appena falciato. «Quanto a me – soggiunse l’abate – giacché mi rimane poco da fare, termino il lavoro e ti seguo». L’incaricato di quella missione, Giuliano, si chiedeva con grande stupore perché mai il suo servo tardasse tanto a tornare. Ad un tratto lo scorse, veniva portando sul collo il fieno preso nel prato. Andò su tutte le furie ed incominciò a gridare: «Ti ho ordinato di condurre qui un uomo, non di portarmi del fieno!». Il servo gli rispose che colui che cercava veniva poco dopo. Giuliano, non appena vide Equizio, lo disprezzò per il suo aspetto dimesso e, altezzoso, si preparava ad apostrofarlo. Ma non appena Equizio gli fu vicino, Giuliano fu preso da un invincibile spavento, tanto da tremare, e a mala pena, farfugliando, riuscì a lasciargli intendere il perché della sua venuta. Fattosi umile, corse a gettarsi alle sue ginocchia, gli chiese di pregare per lui e gli riferì che il Pontefice, lo voleva incontrare. L’incontro non ebbe luogo perché il Papa, avvisato da una visione soprannaturale, che lo convinse della presunzione avuta nel mandare a prendere quell’uomo di Dio, mandò un messaggero a Giuliano con il contrordine di non toccare il servo di Dio e di guardarsi bene dall’allontanarlo dal monastero. Equizio rimase nel suo monastero di San Lorenzo di Marruci anche dopo la sua morte. Morì nel 550 d.C.