Lo psichiatra Vittorino Andreoli si racconta, mette in guardia dai mali della contemporaneità e confessa: “Se incontrassi Trump mi porterei il camice”
Vittorino Andreoli, psichiatra, scrittore, già Direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona – Soave e membro della New York Academy of Sciencesha raccontato di sé, del suo mestiere e della società in una lunga intervista rilasciata a Il Giornale.
Reduce dall’uscita del suo ultimo romanzo Il silenzio delle pietre (Rizzoli), Andreoli racconta la scelta della trama distopica, della solitudine di cui l’uomo avrebbe bisogno.
Siamo intossicati da rumori, parole, messaggi e tutto ciò che occupa la nostra mente nella fase percettiva. Il bisogno di solitudine è una condizione in cui poter pensare ancora. Oggi sono morte le ideologie, è morta la fantasia. Siamo solamente dei recettori. Ho proiettato il libro nel 2028, un giochetto per poter esagerare certe condizioni. Io immagino che ci sia un acuirsi della condizione di oggi per cui noi siamo solo in balia di un empirismo pauroso, dove facciamo le cose subito, senza pensarci.
Lo psichiatra prosegue e punta il dito contro i social network (e, in generale, contro i simulacri del virtuale), vero e proprio male del nostro tempo.
Facebook andrebbe chiuso. Lì abbiamo perso l’individualità, crediamo di avere un potere che è inesistente. L’individuo non sta nelle cose che mostra ma in ciò che non dice. Invece i social ci spingono a dire tutto, ci banalizzano. I social sono un bisogno di esistere perché siamo morti. Creano una condizione di compenso per le persone frustrate […] Quando non si sa più distinguere tra virtuale e reale è pericoloso. Si estende l’apprendimento virtuale nella propria casa, nella propria vita.
I social network sono un pericolo anzitutto per i giovanissimi, i cosiddetti “millennials”, per cui Andreoli esprime timore.
Io sono molto preoccupato. Non siamo più capaci di aiutarli […] Mancano gli esempi dei padri che, a loro volta, hanno bisogno di non essere frustrati. Il male non è mai singolo. C’è qualcosa che non funziona a livello sociale.
Si dice spesso che il male più diffuso dei nostri tempi sia la depressione, ma il noto psichiatra contraddice e corregge l’affermazione. Per Andreoli, la piaga della contemporaneità
è l’infelicità […] Come si fa a essere felici? Noi viviamo nella frustrazione, che si accumula e genera rabbia e questa genera violenza.
L’infelicità genera violenza che, a sua volta, può essere carica distruttiva.
La distruttività è la voglia di rovinare e non riguarda solo l’altro ma anche se stessi.
Tra le “patologie” che affliggono l’uomo, Andreoli annovera anche la smania di potere.
Diciamo che se incontrassi Trump mi porterei dietro il camice. Il potere è una malattia sociale.
Durante la sua carriera, Vittorio Andreoli ha analizzato i profili dei peggiori criminali: Unabomber, Pietro Maso, Donato Bilancia, ecc. Ma in ognuno è sempre riuscito a trovare un lato umano. Confessa che l’eccezione fu incontrare gli imputati di Piazza della Loggia.
La violenza organizzata è drammatica, è un unico corpo malato. Quando non c’è più il criminale isolato ma c’è il sistema, non puoi più valutare una testa. Il delitto non è legato a un uomo solo, quando vedevo gli imputati da soli erano del tutto diversi. Lì non ce l’ho fatta, non ho capito.
E sui concetti di normalità e follia, Andreoli non ragiona per compartimenti stagni.
Siamo tutti matti e tutti normali. Gli omicidi più efferati sono compatibili con la normalità. Significa che Bilancia avrebbe anche potuto non uccidere. E il signore per bene invece sì […] Quando qualcuno non mi sta simpatico, dico: sa che lei è proprio normale? E lui si giustifica. Nessuno vuole essere normale. I normali sono noiosi. Normale vuole dire: equilibrio, coerenza, onestà, regole. Questi elementi sono visti male.
Se la felicità è un obiettivo davvero arduo da raggiungere, Andreoli confessa di credere in un altro tipo di ricerca.
Io ce l’ho con la felicità. Io sono un infelice gioioso. La felicità riguarda l’io, la percezione che un soggetto ha di fronte a qualcosa di positivo che lo riguarda. La gioia riguarda il noi, è corale […] Collettivo, non egoista. Ecco, quello è possibile.