Forse questo romanzo di Claudio Alvigini, Il capitano di Bastur, edito da Macabor, è uno di quelli che più si prestano a una interpretazione dal punto di vista simbolico.
Un’ambientazione velata e trasognata, suggestiva e aperta alla scoperta, facilitano tale operazione.
I simboli esplicitamente (o quasi) sottoposti alla narrazione trovano un quadro di immagini, di metafore in una realtà senza tempo, in cui se tempo ci deve essere, può essere solo quello che appartiene al lettore.
Alvigini ha il pregio di porre un segreto, ineffabile e dal polivalente significato al di là della vita dei protagonisti della storia, sicché ogni loro atto possiede il crisma di una sorta di delirio poetico.
A questo punto viene da chiedersi: com’è nata l’idea di questa storia così originale e insolita all’autore? Non tanto nel rintracciare l’occasione che eventualmente gliel’ha accesa, piuttosto al processo attraverso il quale sono state vagliate le parole, i momenti, le azioni della storia raccontata.
Quello che sappiamo è che il processo creativo è stato lungo, sofferto, ma anche, per certi aspetti, esaltante e che sicuramente ne è valsa la pena perché ci troviamo di fronte a un vero e proprio capolavoro della narrativa contemporanea italiana.