Oggi sant’Ezechiele profeta, nacque a Sarara (Palestina) intorno al 620 a.C., nel periodo in cui sul trono di Roma sedeva Tarquinio Prisco e su quello di Babilonia Nabucodonosor. Fu della tribù di Levi, e come tale sacerdote, ma visse ed operò da profeta. Fu deportato da Nabucodonosor in Babilonia nel 597, a 25 anni, assieme al re Ioiachin e si stabilì nel villaggio di Tel Abib sul fiume Chebar, dove c’era una colonia di esuli. Dopo 5 anni, all’età di circa 30 anni, cominciò il suo ministero profetico confortato da una grande visione e per almeno 22 anni fu la guida morale del suo popolo: doveva rincuorare il popolo di Israele in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Era una personalità dotata di una fervida immaginazione e possedeva la capacità di vedere i fatti che si verificavano a Gerusalemme, pur essendone distante quasi 2.000 Km. Vedeva sé stesso come pastore che doveva vegliare sul popolo. Si presentava anche come guardiano del popolo poiché doveva annunciargli l’imminente giudizio di Dio. Accusava gli israeliti per i loro peccati e li invitava alla conversione. La sua predicazione si concentrò, da quel momento, sulla ricostruzione della Città santa. Ezechiele fu un grande annunziatore della parola di Dio: impavido dinanzi alle minacce, inflessibile contro gli Ebrei ostinati, non teme di svelare la venuta dei castighi di Dio per i perfidi suoi fratelli. Però è commosso, tanto che prima di annunziarli piange e fa lunghe penitenze. Lo scopo di Ezechiele nelle sue profezie è duplice: prima della caduta di Gerusalemme intende esortare il popolo alla penitenza: dopo la caduta le sue parole si rivolgono a consolare gli esuli colla promessa della liberazione, del ritorno in patria e del regno messianico descritto con simboli meravigliosi. Dal duplice scopo scaturisce la divisione del suo libro in due parti. Nella prima annunzia i tremendi castighi di Dio contro il popolo eletto e contro le nazioni idolatre. Nella seconda profetizza la consolazione per Israele. Il suo libro, composto da 48 capitoli, contiene una delle visioni più famose, quella del campo cosparso di ossa che tornano a rivivere al soffio di Dio, rivestendosi di carne. Il tema specifico del suo libro è quello dell’invito alla sottomissione a Dio. Morì a Babilonia nel 570 a.C., come un martire per mano di un principe di Giuda da lui rimproverato per la sua idolatria
Oggi 10 aprile la chiesa celebra santa Maddalena di Canossa, nacque a Verona il 1 marzo 1774, da una ricca famiglia di marchesi, lontana discendente della storica contessa Matilde di Canossa. Nel 1779 il padre muore tragicamente e fu abbandonata insieme ai quattro fratelli dalla madre, passata a seconde nozze. Maddalena e i fratelli vengono affidati a due precettori secondo una consuetudine della nobiltà: accanto a Bonifacio ci sarà don Pietro Rossi, mentre delle fanciulle si occuperà un’istitutrice francese, Francesca Marianna Capron, che influirà in modo negativo nella formazione di Maddalena in particolare per il suo atteggiamento crudele e repressivo. Quando l’istitutrice abbandona l’incarico presso casa Canossa, Maddalena si ammala improvvisamente e gravemente. Superata la malattia, Maddalena confida a don Pietro Rossi la decisione di consacrarsi a Dio ed inizia ad esaminare le regole di alcuni ordini religiosi. Dopo aver scoperto una particolare sintonia spirituale con le regole delle carmelitane scalze, il 2 maggio 1791 si ritira per circa dieci mesi nel monastero di Santa Teresa a Verona. Durante quest’esperienza, pur ammirando le carmelitane, percepisce una certa distanza tra il suo sentire interiore e la loro vita. Tornata a casa, curò per vari anni l’amministrazione del ricco patrimonio, rivelando in questo un talento straordinario. Maddalena si preoccupava di ogni tipo di povertà, economica e morale; nel suo apostolato, visitava gli ammalati negli ospedali e nelle loro case, comprava copie del catechismo per l’insegnamento nelle chiese locali, organizzava ritiri, aiutava ragazze abbandonate e a rischio, dava cibo a coloro che ogni giorno si presentavano alla sua porta, e visitava quanti abitavano in case o baracche decrepite. Agli inizi del 1801 accolse presso di sé due ragazze povere, sistemandole poi in una casa appositamente acquistata nei pressi del rione di San Zeno, parte più povera e malfamata della città, dove 4 anni dopo si stabilì anch’essa. Costretta a tornare in famiglia dallo zio, nel 1808 ottenne da Napoleone l’ex convento delle Agostiniane, dando vita a una comunità monastica, dove aprì anche una scuola e, lasciata la sua dimora, vi si installò definitivamente con le sue maestre e le sue allieve. Lì, l’8 maggio 1808, si formò il primo nucleo della futura Congregazione delle Figlie della Carità (canossiane), a cui diede forma definitiva a Venezia, dove era stata chiamata dai nobili fratelli Antonangelo e Marcantonio Cavanis, aprì una seconda casa nell’antico monastero di Santa Lucia e cominciando a redigere le regole del suo istituto. Nel 1816 aprì una casa a Milano e nel 1820 una a Bergamo; otto anni dopo andò a Roma per ottenere l’approvazione definitiva per la congregazione da Leone XII. Aveva desiderato a lungo fondare una congregazione di sacerdoti e fratelli laici che condividessero la sua opera e collaborò per un certo periodo con il beato Antonio Rosmini, fondatore dell’Istituto della Carità (rosminiani); alla fine, nel 1831, fece nascere la comunità dei Figli della Carità con l’aiuto di un sacerdote veneziano e di due laici. Mentre si accingeva alla fondazione di due nuove case a Brescia e a Cremona, Maddalena concluse a Verona la sua operosa giornata terrena caratterizzata da una instancabile attività e da un luminoso apostolato. Morì a Verona il 10 aprile 1835, a 61 anni
10 aprile: beato Antonio Neyrot di Rivoli, nacque a Rivoli (Torino) tra il 1420-23, non si hanno notizie certe sulle sue origini e sulla sua vita fino a quando giunto a Firenze entra a far parte del convento domenicano di San Marco, dove sotto la guida di sant’Antonino Pierozzi, che diventerà arcivescovo di Firenze, nel 1436 emise la professione religiosa. Era l’epoca in cui frate Giovanni da Fiesole, conosciuto come Beato Angelico, stava affrescando il convento di Firenze. Antonio sarà così uno degli ultimi giovani seguiti da Antonino, che lo metterà in guardia sulla fretta e gli insegnerà i giusti passi per diventare un buon domenicano, gli ripeteva, occorre molto studio, con molta preghiera e molta pazienza. Ma nonostante le raccomandazioni Antonio non conosceva la pazienza. Sopportava male il lento apprendistato sui libri. Si considerava già preparatissimo, tanto da volere andare subito in prima linea. Dopo la peste del 1448, che aveva decimato i frati del convento, volle partire per la Sicilia ed insistette con i superiori, perché lo mandassero. Dopo che gli risposero di no si appellò a Roma. Per insistenza sua e per raccomandazioni autorevoli, in Sicilia ci arrivò davvero, con tutti i permessi romani. Vi restò per alcuni anni. Nel 1458 si imbarcò dalla Sicilia diretto a Napoli, secondo alcuni forse verso l’Africa. Ma questa è anche una stagione di pirati, e in essi s’imbatté appunto la sua nave il 2 agosto: venne catturato con l’equipaggio dal corsaro Nardo Hannequin, un cristiano rinnegato, che esercitava la pirateria al servizio del re di Tunisi, dove fu tradotto in catene il 9 agosto 1458. Così arrivò davvero in Africa, ma come schiavo, sbarcando a Tunisi; la terra che desiderava evangelizzare diventò la terra di tutti i suoi fallimenti. In carcere fu visitato da un religioso, fra Costanzo da Capri, dell’ordine di San Girolamo. Rivolse domanda di riscatto a Clemente Cicero, facoltoso genovese benvoluto dal re, ma senza esito positivo. Fu infine liberato per l’intervento di un confratello, fra Giovanni, cappellano dei genovesi, che avevano a Tunisi un loro quartiere; qui Antonio si fermò per circa cinque mesi. Il predicatore impaziente dei tempi fiorentini, il 6 aprile 1459 rinnegherà la sua fede e buttò l’abito domenicano, prendendo moglie e facendosi musulmano. Si accinse alla traduzione del Corano. A metterlo in crisi di coscienza e a farlo rinsavire sembra essere stata la notizia della morte di sant’Antonino, il suo maestro poco ascoltato, avvenuta a Firenze il 2 aprile 1459, ne venne a conoscenza, non è chiaro se per un racconto di un mercante o per un apparizione in sogno dello stesso maestro. Deciso a riparare davanti a tutti lo scandalo pubblico che aveva dato, dopo sei mesi di penitenza, ricevuti i sacramenti, rinnovati i voti e ripresa la tonsura, la Domenica delle Palme, rivestito del saio domenicano, si fece incontro al re di Tunisi, che entrava in città, dichiarando la sua fede in Cristo e il pentimento per averlo rinnegato. Dopo vane insistenze e lusinghiere promesse affinché rinunciasse dal proposito, il re lo fece consegnare alla giustizia. Incarcerato, Antonio distribuiva cibo e bevande agli altri prigionieri cristiani, tenendo per sé solo pane e acqua. Fu condannato a morte per lapidazione, colpito selvaggiamente con spade e sassi morendo in mezzo ai tormenti. Si cercò di bruciarne il corpo, ma le fiamme lo lasciarono intatto; allora il cadavere, dopo essere stato trascinato per la città, venne gettato in una fossa di immondizie. Avvenuto il martirio, le spoglie di Antonio furono riscattate da mercanti genovesi e nel 1469 raggiunsero, grazie alla mediazione del beato Amedeo IX di Savoia, la nativa Rivoli. Morì il 10 aprile 1460.