42 anni fa oggi veniva assassinato Aldo Moro. Io avevo 25 anni, e ricordo bene quel giorno. Il grande statista, che era stato cinque volte Presidente del Consiglio dei Ministri, era in quel momento Presidente della Democrazia Cristiana. Partito che aveva contribuito a fondare alla fine del ventennio fascista e che guidava l’Italia: un Paese smarrito, in crisi dopo gli anni della grande crescita industriale e sotto attacco del terrorismo interno delle Brigate Rosse. In quegli anni così difficili, Moro era un faro. Un politico discreto, intelligente, rigoroso, carismatico. Aveva capito che si stava aprendo una nuova stagione politica dove il pensiero del cattolicesimo popolare poteva ancora contribuire allo sviluppo democratico ma con nuove formule sociali e politiche. Per chi mirava alla destabilizzazione, per chi alimentava la tensione e la contrapposizione sociale, Moro era un uomo pericoloso e ingombrante. Il simbolo della capacità della politica di costruire avanzamento e progresso attraverso il dialogo e il confronto nelle istituzioni. Dopo una prigionia durata 55 giorni, i suoi rapitori freddarono Moro con 12 proiettili, il 9 maggio del 1978.
Fu l’atto più eclatante del terrorismo interno delle Brigate Rosse, e al contempo ne segnò l’inizio della fine: la risposta dello Stato, delle istituzioni democratiche, della società civile isolarono e infine debellarono gli estremisti. Decretando la vittoria postuma dell’idea di politica a cui Moro aveva dedicato la vita. È giusto ricordarlo, e non dimenticare mai.