Oggi 29 maggio la chiesa celebra san Massimino di Treviri, nacque a Silly (Francia) nel III secolo, da una nobile famiglia. Fratello di san Massenzio, vescovo di Poitiers. Dalla città natia di Silly si trasferì nella città di Treviri (attuale Germania), che in quegli anni era la capitale dell’Impero d’Occidente. Giunto a Treviri, Massimino venne nominato presbitero grazie alla guida incessante del vescovo Agrizio, di cui prese il posto negli anni intercorrenti tra il 320 ed il 330. Le opere di Massimino si registrano sotto il governo dei figli di Costantino il Grande. Una testimonianza, a quanto pare attendibile, racconta che già sotto il governo di Costantino, che si era subito distinto per il suo appoggio alla reazione antinicena, Massimino mostrò il suo impegno per difendere l’ortodossia. Durante il viaggio verso Roma sarebbe stato aggredito da un orso che gli divorò l’asino, in groppa al quale aveva caricato tutti i suoi bagagli; Massimino assistette impassibile a quella abbuffata, poi avrebbe costretto l’orso a trasportargli il pesante carico. L’orso con cui il vescovo dovette combattere il santo vescovo rappresenta metaforicamente parlando l’imperatore ariano di Costantinopoli, Costante, che aveva esiliato i due grandi campioni dell’ortodossia, sant’Atanasio d’Alessandria e san Paolo di Costantinopoli. In questa circostanza si mostrò coraggioso non solo offrendo ospitalità e sostegno ai due patriarchi esuli, ma adoperandosi con successo si recò a Costantinopoli presso lo stesso l’imperatore, che alla fine cedette e permise che i due vescovi tornassero alle loro rispettive diocesi. Morì a Poitiers il 12 settembre 349, lontano dalla propria sede episcopale.
29 maggio: sant’Orsola Ledóchowska (al secolo Julia Maria Ledóchowska), nacque a Loosdörf (Austria) il 17 aprile 1865, da una nobile famiglia di origini polacche. La sua famiglia, nel 1883, si trasferì nella tenuta di Lipnica Murowana (Polonia). Dopo i primi piccoli disagi nel nuovo ambiente, Julia, nonostante la sua giovane età, dimostra una particolare sensibilità per le necessità dell’ambiente in cui vive, per cui ben presto diventa la consigliera fidata di molti, avendo il dono di riconciliare i contadini in lite, i quali accettano la sua mediazione con riconoscenza. Nel 1886 Julia entrò nel convento delle Orsoline di Cracovia, dove prese i voti nell’aprile 1889, decidendo di chiamarsi Orsola Maria, in omaggio alla fondatrice dell’Ordine. Quando nel 1903 in Polonia le donne acquisirono il diritto allo studio universitario, Orsola aprì, all’interno del convento di cui divenne madre superiora, il primo pensionato per studentesse, dove le ragazze potevano trovare non solo un posto sicuro per la vita e per lo studio, ma anche una solida formazione religiosa. Con la benedizione di papa Pio X, nel 1907 Orsola partì con due consorelle per San Pietroburgo (Russia), dove assunse la direzione di un convitto per le ragazze presso il Ginnasio Polacco di Santa Caterina. Nel 1908 la comunità delle Orsoline, sempre più numerosa vive clandestinamente la sua missione, nel lavoro, nella povertà e nell’insicurezza del domani, in ambienti vari per nazionalità, mentalità e confessione religiosa, nel dono totale di sé a Dio e al prossimo in una sconfinata fiducia nei piani di Dio. Nel 1914 lo scoppio della guerra provoca l’espulsione di Orsola dalla Russia, e di conseguenza si trasferisce con la comunità in Scandinavia, dove fondò un’altra scuola, un pensionato e un giornale per i cattolici svedesi, poi tre anni dopo ad Aalborg (Danimarca), dove si occupò dei profughi polacchi finché, nel 1919, poté rientrare nel suo convento di origine. Nel 1920 Orsola torna nella Polonia libera, e si stabilisce a Pniewy e poco dopo riceve da Benedetto XV, il permesso di fondare la Congregazione delle Suore Orsoline del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante. Nel 1928 aprì la casa madre di Roma e cominciò a girare per i poveri sobborghi della capitale, distribuendo sorrisi e aiuti materiali e spirituali, e infondendo la speranza per un futuro migliore. Morì improvvisamente a Roma il 29 maggio 1939, a 64 anni.
29 maggio: beato Rolando Maria Rivi, nacque a San Valentino di Castellarano (Reggio Emilia) il 7 gennaio 1931, da una famiglia di contadini cristiani. A soli 11 anni, nel 1942, in piena Seconda Guerra Mondiale, entrò nel seminario di Marola (Reggio Emilio), dove vestì per la prima volta l’abito talare che non lascerà più fino alla morte, portandola anche quando l’Italia era divisa da un odio fratricida diffuso dai comunisti che consideravano i sacerdoti nemici da uccidere. Il desiderio di diventare “sacerdote e missionario” cresce guardando alla figura del suo parroco, don Olinto Marzocchini, uomo di ricchissima vita interiore, attento alle cose che veramente contano, che fu per il ragazzo una guida e un maestro. Ma il suo sogno di diventare prete si spezzò nel 1944 quando i soldati tedeschi occuparono il seminario di Marola e tutti i ragazzi dovettero tornare nelle loro case e continuare gli studi da soli. Anche Rolando, tornato a casa, continua gli studi da seminarista, sotto la guida del parroco, e porta nel suo paese un’ardente testimonianza di fede e di carità, vestendo sempre l’abito talare, Per questa sua testimonianza di amore a Gesù, così intensa da attirare gli altri ragazzi verso l’esperienza cristiana, Rolando, nel clima di odio contro i sacerdoti diffusosi in quel periodo, finisce nel mirino di un gruppo di partigiani comunisti. «Rolando, non portarla ora. È più sicuro se vai in giro per il paese con gli abiti civili», gli consigliavano i genitori preoccupati per le continue scorribande nelle loro campagne di tedeschi, fascisti e partigiani. Ma Rolando non li ascoltava: «Studio da prete e tonaca è il segno che io di Gesù», rispondeva con determinazione, dividendosi sempre tra la chiesa, la casa e un boschetto dove andava a studiare. Cosa che fece così anche il 10 aprile 1945, ma quel giorno non tornò a casa. E quando, non vedendolo arrivare, i genitori andarono a cercarlo, trovarono a terra i libri e un biglietto: «Non cercatelo, viene un momento con noi partigiani». Rolando viene sequestrato, portato prigioniero a Piane di Monchio (Modena), accusato di fare la spia per i fascisti, rinchiuso in un casolare per tre giorni, brutalmente seviziato, picchiato e torturato. Il 13 aprile 1945, il ragazzo innocente, a soli 14 anni, spogliato a forza della sua veste talare, viene trascinato in un bosco di Piane di Monchio e ucciso con due colpi di pistola. Quando Rolando capisce che i carnefici non avrebbero avuto pietà, chiede solo di poter pregare per il suo papà e per la sua mamma. Anche in quest’ultimo istante, nella preghiera, Rolando riafferma la sua appartenenza all’amico Gesù, al suo amore e alla sua misericordia. Seguendo le indicazioni di alcuni partigiani, comprese quelle dello stesso assassino, la sera del 14 aprile il papà Roberto e don Alberto Camellini, curato di San Valentino, ne ritrovarono il corpo che presentava il volto coperto di lividi, il corpo martoriato e le due ferite mortali, una alla tempia sinistra e l’altra all’altezza del cuore. Morì il 13 aprile 1942, a 14 anni.