di Gianni Amodeo
Obiettivo mirato sulla rivisitazione della legislazione anti–ebraica messa a punto dal governo del Regno d’Italia, presieduto da Benito Mussolini, ed approvata all’unanimità dalla Camera e, a larga maggioranza, dal Senato, con la sottoscrizione di convalida del re Vittorio Emanuele III di Savoia che la rendeva vigente il 17 novembre del 1938, sulla scia di altri e molteplici atti e provvedimenti amministrativi adottati e resi operativi dal 1936, con i quali si assoggettavano ebree ed ebrei a restrizioni e limitazioni fortemente penalizzanti per la normale vita civile, incidendo in larga misura persino sull’esercizio delle comuni attività di lavoro. E la storia di Josef Bican, chiamato Pepi tout-court, il goleador per antonomasia nell’Europa della difficile e controversa temperie degli anni ’30 e ’40 e, prima ancora, uomo di libertà e di passione civile, idealità e visioni di vita – queste- delle quali Pepi fu attivo testimone, pagando un duro pedaggio, per sottrarsi sia all’avvento del totalitarismo nazista, sia a quello del totalitarismo comunista,- così come erano venuti consolidandosi con gli apparati polizieschi dei loro oppressivi regimi politici prima, durante e dopo la secondo guerra mondiale, segnatamente lungo l’asse che include la Germania, l’Austria e la Cecoslovacchia già Protettorato di Boemia e Moravia -, a cui non volle piegarsi, ne volle farsene alfiere e bandiera atletica, accettando di far parte di formazioni nazionali o di società calcistiche, funzionali alla propaganda di regime attraverso proprio lo sport.
Sono i quadri focali, che hanno fatto da pendant di conoscenza e riflessione sul generale contesto d’approdo alla Shoah, catalizzando l’attenzione e l’interesse di coloro che si sono riuniti nei locali de L’Incontro, per condividere con proficua sensibilità partecipativa la costruzione della Memoria comune sull’immane tragedia che si consumò dal 1939 al 1945 all’interno dell’altra immane tragedia del conflitto bellico, per se stesso devastante e distruttivo in dimensioni, quali mai prima l’umanità aveva patito e conosciuto, con il sacrificio di oltre 50 milioni di vittime umane. Sconvolgenti tragedie, che, stringendosi in inesorabile morsa di tenaglia a prova d’acciaio, travolsero nell’annientamento sei milioni di ebree, ebrei, zingare, zingari, oltre che bambine e bambini da utilizzare come cavie di sperimentazione medica, minoranze etniche. E fu la Soluzione finale, che sigillava la programmazione scientifica, elaborata e attuata dalla Germania nazista segnatamente nell’Europa tenuta sotto scacco con l’occupazione delle sue truppe.
E sul punto, in chiave di doveroso giudizio morale, oltre che storico, sono e restano del tutto calzanti e veritiere le parole di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sulla ed Enzo Traverso nella presentazione di Storia della Shoah, pubblicata nel 2005 dall’Utet ed articolata in dieci volumi, di cui sono stati curatori, certamente tra le più esaustive opere storiografiche nel racconto dell’ Europa del ‘900 e del travaglio che la segnò, in particolare, nei profondi processi di trasformazione sociale, politica ed economica da cui attraversata. Un travaglio duro e lungo, che innescò crisi irreversibili e laceranti, sfociate in due guerre mondiali, oltre che in autoritarismi, nazionalismi e totalitarismi in larga misura nello scenario continentale europeo, senza alcun riverbero sull’Inghilterra e sui suoi assetti istituzionali di parlamentarismo liberale e democrazia moderna. Uno scenario,-scrivono- in cui la Shoah ….Per le sue premesse, per le sue molteplici cause e per il concreto svolgersi degli eventi fu una disfatta della civiltà europea e uno dei baratri più profondi dell’umanità in tutta la sua storia.
Della disfatta della civiltà europea – , della quale la Shoah rappresenta l’acme che scuote e turba le coscienze sensibili al bene dell’umanità -, uno dei profili più rilevanti è certamente costituito dall’involuzione regressiva subita nella prima parte del Novecento dal Diritto, che, nell’Ottocento pure aveva espresso in Germania e in Italia, sulle tracce del Secolo dei Lumi, una cultura giuridica evolutiva, ch’era ancorata alla formazione dello Stato di diritto, rimuovendo la feudalità e gli assolutismi monarchici, per delineare i percorsi della modernizzazione della società. E’ proprio sull’ involuzione regressiva del Diritto, che si riflette e fa da matrice delle legislazioni razziste antiebraiche del ‘900, apriva significativi e puntuali squarci di analisi l’avvocato Giuseppe Macario, rivisitando, in premessa, l’ antisemitismo e le sue nefandezze nella millenaria storia europea.
Era il passaggio, cui ricorreva, per sottolineare la rilevanza degli studi e dei saggi di Hannah Arendt nel rappresentare la banalità del male, così come si esplicitò nella Shoah, le cui vittime, private di dignità e condizione umana, erano soltanto dei numeri per l’arida contabilità dei campi di concentramento e delle camere a gas. Ed era anche il passaggio, per il quale Macario richiamava l’analisi di Karl Jaspers,- tedesco ed esule in Svizzera per aver sposato una donna ebrea, tra i pensatori più interessanti dell’ Esistenzialismo,- in ordine alla questione della colpa, con le correlate responsabilità, da attribuire per aver generato la Shoah. Ed è interamente politica la colpa che grava sul popolo tedesco- sottolineava- alla luce del saggio che il filosofo pubblicò nel 1946, per i silenzi, l’indifferenza, l’adesione e l’asservimento acquiescente e conformista osservati e praticati verso le politiche razziste antiebraiche del nazismo; colpa politica, ben diversificata dalle altre modalità di colpa, da quella strettamente giuridica a quella morale e a quella metafisica che investono le singole persone in ambiti specifici e distinti, rispetto alle violazioni delle leggi codificate, alla coscienza delle persone e ai valori di solidarietà su cui si fonda la civile convivenza nella libertà e nell’uguaglianza senza distinzioni razziali, etniche, religiose, politiche e sociali.
Su questa traccia, l’avvocato Macario inquadrava alcuni dei più stringenti dispositivi della legislazione antiebraica attuata in Italia, fissandone le fasi di periodizzazione: 1938–1943, connotata dall’aggressiva persecuzione con restrizione massima nell’esercizio dei diritti civili, sociali ed economici; 1943–1945, caratterizzata dalla persecuzione delle vite di ebree e ebrei, seguendo lo schema procedurale, racchiuso tra la permanenza nei campi d’internamento e detenzione fino alla deportazione per lo sterminio. Un sistema persecutorio e di angherie di ogni genere, che fu connesso all’ancora più sistematica spoliazione delle imprese dei beni che venivano requisiti e sottratti alle ebree e agli ebrei, in applicazione della legislazione del 1938; per la sistematicità operativa della spoliazione–confisca a favore dello Stato, fu anche istituito l’ Ente di gestione e liquidazione– in acronimo Egeli– delle imprese e dei beni espropriati, con la messa in vendita all’asta. E tutto ciò si realizzava nella Germania nazista.
Di fatto, la spoliazione–confisca corrispondeva in pieno alla ragione politica delle leggi razziali, evidenziata dalla dichiarazione di Achille Starace, il segretario generale del Partito nazionale fascista, per il quale “ il capitale degli ebrei va sottomesso al severo controllo ariano, al servizio della Nazione ”.E, restando in questo ambito – sottolineava Macario– in Germania furono operative con efficienti apparati amministrativi succursali dei Centri di raccolta, ch’erano stati istituiti nei territori degli Stati occupati dalle truppe tedesche, per la gestione dei beni patrimoniali sottratti agli ebrei. E soltanto negli anni ‘90, a guerra conclusa nel ’45, in Italia venne varata la Commissione presieduta dall’on. le Tina Anselmi, per istruire il capitolo di risarcimenti e restituzione ai pochi sopravvissuti alla Shoah e agli eredi dei deportati i beni ch’erano stati loro sottratti, tra cui importanti collezioni di opere d’arte d’inestimabile valore. Non venne a capo di alcuna risoluzione di riparazione materiale, con importanti patrimoni che restarono acquisiti allo Stato, a Musei e Fondazioni, oltre che a privati, a costo zero o poco più del costo zero; e la stessa sorte si registrò per i tanti considerevoli depositi economici che erano restati vincolati sulle Banche svizzere, con interessi diffusi soprattutto negli Stati Uniti d’ America.
Storie dure e complicate, nelle riflessioni analitiche fatte dall’avvocato Giuseppe Macario, proposte con linearità e chiarezza di linguaggio, in piena consonanza con il modello di vivace affabulazione, arricchita dalle sequenze in info-point, di Angelo Amato De Serpis nella presentazione di Né rosso né nero, il romanzo di cui è autore, pubblicato per la collana Robin&Sons, con protagonista Josef– Pepi– Bican, calciatore di classe e grande vigore atletico, ma soprattutto uomo di libertà.
Una storia, quella di Pepi, che lascia l’Austria, dove è un mito sportivo, quando la Germania hitleriana è ormai in procinto di realizzarne l’annessione, che si concretizza nel 1938. Non vuole vivere sotto un regime totalitario, qual è quello nazista. E si rifugia in Cecoslovacchia, che poco dopo viene occupata dalle truppe tedesche, diventando Protettorato di Boemia e Moravia. E’ la classica caduta dalla padella alla brace, per Pepi. Arriva la fine della guerra, e dalla mappa geopolitica europea è cancellato il Protettorato di Boemia e Moravia, mentre si ricompone la Cecoslovacchia nell’orbita d’influenza dell’Urss, sotto l’insegna del totalitarismo comunista. E un mondo-anche questo inconciliabile con le idealità e scelte di vita di Pepi. E ne sconterà le conseguenze, con privazioni e persecuzioni varie, morendo in condizioni di povertà.
Una storia- affermava Angelo Amato De Serpis– in cui libertà e sport si saldano, testimoniando l’esemplarità di mondo di valori e idealità da onorare e rispettare, ma soprattutto da praticare. E la vicenda di Pepi Bican– aggiungeva- rientra nella sfera delle molteplici e infinite micro-storie personali che si incastonano nel grande e illimitato flusso della macrostoria, con le sue luci di civilizzazione, progresso, pace e le sue zone di buio profondo di umanità negata di cui la Shoah è dolente espressione.
Il senso del Ricordo della Shoah era reso particolarmente significativo dall’intervento introduttivo di Carlo Melissa, che annunciava, tra l’altro, la realizzazione di un collage-libro di testi di cronaca che raccontano le iniziative de L‘ Incontro, in vista del trentennale della fondazione del sodalizio di via Luigi Napolitano, e dalla selezione di letture tematiche sulla Shoah e sulla legislazione razziale antiebraica del 1938 e di brani del romanzo Né rosso né nero, a cura di Giusy De Laurentiis, con rilevante attenzione per le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah.
Il tocco di suggestiva commozione era impresso dalle vibranti e intense note del violino di Domenica Salapete,- appena quindicenne che frequenta la seconda classe del Liceo scientifico statale Nobile–Amundsen, a Mugnano del Cardinale, e il Conservatorio musicale Domenico Cimarosa, ad Avellino-, con l’esecuzione di Secret garden, Experience e Schindler’s.