a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 2 novembre la chiesa celebra la Commemorazione di tutti i fedeli defunti, anticamente preceduta da una novena, è celebrata il 2 novembre di ogni anno. Il colore liturgico di questa commemorazione è il viola, il colore della penitenza, dell’attesa e del dolore, utilizzato anche nei funerali; è possibile usare anche il nero. L’idea di commemorare i defunti in suffragio nasce su ispirazione di un rito bizantino che celebrava infatti tutti i morti, il sabato prima della domenica di Sessagesima, così chiamata prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II, cioè la domenica che precede di due settimane l’inizio della Quaresima. In questo periodo siamo invitati a pregare e ricordare i nostri cari che ci hanno lasciato e tutte le anime del purgatorio. La pietas verso i morti risale agli albori dell’umanità. In epoca cristiana, fin dall’epoca delle catacombe l’arte funeraria nutriva la speranza dei fedeli. A Roma, con toccante semplicità, i cristiani erano soliti rappresentare sulla parete del loculo in cui era deposto un loro congiunto la figura di Lazzaro. Quasi a significare: come Gesù ha pianto per l’amico Lazzaro e lo ha fatto ritornare in vita, così farà anche per questo suo discepolo. La commemorazione liturgica di tutti i fedeli defunti prende forma nel IX secolo in ambiente monastico. Nella chiesa latina il rito viene fatto risalire all’abate benedettino sant’Odilone di Cluny nel 998: con la riforma cluniacense stabilì infatti che le campane dell’abbazia fossero fatte suonare con rintocchi funebri dopo i Vespri del 1 novembre per celebrare i defunti, ed il giorno dopo l’eucaristia sarebbe stata offerta “pro requie omnium defunctorum”; successivamente il rito venne esteso a tutta la Chiesa Cattolica. Ufficialmente la festività, chiamata originariamente Anniversarium Omnium Animarum, appare per la prima volta nell’Ordo Romanus del XIV. La speranza cristiana trova fondamento nella Bibbia, nella invincibile bontà e misericordia di Dio. «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!», esclama Giobbe nel mezzo della sua tormentata vicenda. Non è dunque la dissoluzione nella polvere il destino finale dell’uomo, ma, attraversata la tenebra della morte, la visione di Dio. Il tema è ripreso con potenza espressiva dall’apostolo Paolo che colloca la morte-resurrezione di Gesù in una successione non disgiungibile. I discepoli sono chiamati alla medesima esperienza, anzi tutta la loro esistenza reca le stigmate del mistero pasquale, è guidata dallo Spirito del Risorto. Per questo i fedeli pregano per i loro cari defunti e confidano nella loro intercessione. Nutrono infine la speranza di raggiungerli in cielo per unirsi gli eletti nella lode della gloria di Dio.
2 novembre: san Giusto di Trieste, visse nel II secolo d.C. sotto gli imperatori Diocleziano e Massimiano nella città di Trieste e, come per molti dei santi martiri cristiani, si conosce poco della sua vita. Il culto di san Giusto si concentra nella parte finale della sua vita. Si sa che Giusto fu cristiano fin dalla nascita e si presume che possa essere stato un sacerdote. Giusto, era conosciuto a Trieste per le sue opere ed elemosine, fu denunciato di irriverenza da alcuni suoi concittadini. Secondo la legge romana il giudice doveva verificare di persona l’accusa. Perciò Giusto fu convocato nello studio privato del magistrato ed invitato a sacrificare agli dèi romani, ma non accettò di rinnegare la propria fede. Nella scrupolosa osservanza delle procedure, il magistrato Manazio (o Mannaccio) governatore romano della Trieste di allora, mandò Giusto in carcere per una pausa di riflessione. Fu così che presumibilmente il 2 novembre 303, Giusto, nuovamente esortato a sacrificare, rifiutò; venne quindi fustigato e, poiché persisteva nel suo rifiuto, condannato alla morte per annegamento. A Giusto furono legate mani e piedi a dei sassi di piombo e, caricato su una barca, fu gettato in mare. La leggenda vuole che quella stessa notte, Giusto si presentò in sogno al sacerdote Sebastiano invitandolo a recuperare il proprio corpo sulla riva dell’odierna Riva Grumula. Il giorno seguente il corpo di Giusto, infatti, inspiegabilmente libero da corde e pesi fu ritrovato sulla spiaggia e fu cura del sacerdote e di altri fedeli ed insieme essi cercarono il cadavere. Trovatolo sulla spiaggia, lo seppellirono in luogo nascosto poco distante dal mare; patrono di Trieste.
2 novembre: Venerabile Domenico Blasucci, nacque a Ruvo del Monte (Potenza) il 5 marzo 1732, in un ambiente modesto, ma sentitamente religioso. A pochi mesi è in grave pericolo di vita. Suo fratello già si reca in Chiesa per invitare il sacrestano a dare il segno della campana, tipico per la morte dei bambini, quando Domenico recupera miracolosamente la salute per intercessione di san Francesco Saverio, di cui la mamma è devotissima. Nel 1735, a soli 3 anni, rimane orfano di padre. L’istruzione e l’educazione sono curate dalla madre, mentre la formazione religiosa è affidata a tre sacerdoti, di cui due zii materni, e a un cugino suddiacono. Il piccolo cresce imitando i riti religiosi; dispone altarini e modella statue di Santi. Avverte il primo segno vocazionale quando, a Ruvo del Monte, nel giugno 1748, giungono i Missionari di San Vincenzo de’ Paoli. Domenico che ha solo 16 anni, ascolta con interesse, le predicazioni dei frati e sente vivo il richiamo della vita religiosa. Chiede di entrare nell’Istituto Vincenziano, ma il parere negativo della madre e le difficoltà economiche lo obbligano al lavoro dei campi. Il suo coinvolgimento nell’apostolato per la salvezza delle anime si manifesta, con crescente ardore, quando, a casa di una zia, incontra don Lorenzo Fungaroli di Caposele (Avellino). Don Lorenzo descrive al giovane, con trasporto e ammirazione, l’opera di alcuni Missionari della Congregazione del Santissimo Redentore (redentoristi), di recente fondata da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che si sono stabiliti nel Santuario di Materdomini a Caposele. È una vera rivelazione per Domenico, che prova uno slancio d’amore verso il Signore. Vuole fortemente farsi accettare dai redentoristi e, a tal fine, invoca l’aiuto della Vergine. Partecipa, con particolare fervore, alla novena del dicembre 1749, in onore dell’Immacolata Concezione, nel Monastero dei Conventuali di San Francesco a Ruvo del Monte e, finalmente, superati gli ostacoli di natura economica, il 21 dicembre 1749, parte per la casa religiosa di Ciorani (Salerno) per fare il Noviziato nei redentoristi. Giunge a Ciorani il 24 dicembre 1749 ed è accolto nell’Istituto dallo stesso sant’Alfonso. Il 2 febbraio 1750, festività della Presentazione del Signore, Domenico veste l’abito religioso. I voti di povertà, castità, obbedienza e perseveranza nella vocazione religiosa, li emetterà il 2 febbraio 1751. Nel febbraio del 1751, raggiunge la casa religiosa di Pagani (Salerno) per compiervi gli studi teologici che, spesso, saranno interrotti a causa dell’insorgere di una grave malattia: la tisi. Vivrà ancora poco tempo, 22 mesi di sofferenze, ma anche di totale abbandono in Dio. La ricerca del recupero fisico lo costringe a continui spostamenti tra le sedi delle case redentoriste. A Deliceto (Foggia), nella Comunità di Santa Maria della Consolazione, incontra san Gerardo Maiella con il quale stabilisce una profonda e fraterna amicizia, rafforzata dalla promessa scambievole di recitare, ogni giorno e fino alla morte, un’Ave Maria alla Vergine. Nei mesi successivi, le condizioni fisiche di Domenico peggiorano considerevolmente. Con il trascorrere dei mesi, sente venir meno le forze, ma, con il suo slancio e la sua fermezza nel Signore, riesce ad incoraggiare e favorire la vocazione, tra gli altri, di suo fratello, Pietro Paolo, che dopo la morte di sant’Alfonso, governerà la Congregazione per 24 anni, in qualità Generale dei Missionari Redentoristi. Nella casa di Materdomini (Avellino) Domenico spirò con la corona del Rosario e il Crocifisso tra le mani e il sorriso sulle labbra. Morì il 2 novembre 1752.