Una città troppo bella per essere felici

Una città troppo bella per essere felici

di Valentina Guerriero

Fare un commento sul film di Sorrentino: qualcosa di troppo facile e che tutti si aspettano in una testata. Il nuovo film di Sorrentino è indubbiamente il film del momento e lo testimonia l’affluenza al cinema Savoia di Nola il venerdì successivo alla sua uscita, avvenuta il 24 Ottobre.
A distanza quasi di un mese, Parthenope è ancora nelle sale, ad esempio nel Vulcano, con svariate proiezioni ed eccellenti incassi (posizionandosi nelle settimane clou solo dietro al cinecomic Venom) e nonostante le tante critiche che gli sono state mosse. Personalmente, se non l’ho visto il giorno stesso della sua uscita, bensì il 25, era semplicemente perché ero impegnata nel concerto (di ciò che resta) dei Jethro Tull al Palapartenope. Da qualche anno, infatti, io e Sorrentino abbiamo un tacito accordo – seguo la sua produzione volentieri – in particolare sigillato da È stata la mano di Dio, uscito in piena pandemia e poco dopo distribuito su Netflix, con cui il regista napoletano ha da anni una convenzione (e sono disponibili sulla piattaforma tutti i suoi film, tranne Loro sulla vita di Silvio Berlusconi, i cui diritti in Italia sono stati acquistati integralmente da Mediaset, che ne ha bloccato la diffusione).

Ma ritornando a Parthenope, il suo seme era ne La grande bellezza, precisamente in una delle sue ultime scene, quando Jep Gambardella (Toni Servillo), alla fine della sua lunga ricerca, comprende. Comprende finalmente quel senso delle cose, un senso che, anche se fuggevole, trova racchiuso in pochissimi attimi costituiti da una brevissima perfezione, lo trova nei ricordi di un amore giovanile. Sebbene quella scena non fosse girata in costiera (sorrentina o amalfitana che sia, fa poca differenza) bensì nell’Isola del Giglio, in Toscana, per chi abita a Napoliquel senso ritrovato, quella fascinazione, è qualcosa di profondamente vissuto, e che appartiene.

Parthenope non è il miglior film di Sorrentino ma merita comunque una o più visioni. È inferiore, si potrebbe ammettere con una nota di snobismo, sia a È stata la mano di Dio che a La grande bellezza, i quali mantengono entrambi una ferma eleganza si collocano rispettivamente uno nello scenario di Roma e l’altro a Napoli, ovviamente declinando le atmosfere di una e l’altra città in modi diversi, risultando perciò vendibili in tutto il mondo. Non che Parthenope non sia vendibile: lo è molto. Eppure qui Sorrentino, forse preso da un’idea che conservava da chissà quanto tempo, ha effettuato alcune sbavature. Ma non sono sbavature in quanto errori: è il risultato di un impegno effettuato da chi ci ha messo qualcosa di molto intimo e personale, di chi ha continuato a mettere colore su colore in un’opera che forse richiedeva più precisione e meno imbrattate. Ma si sa, il sentimento d’amore può essere anche violento, dotato di un’energia che non si esaurisce facilmente, e questo è il risultato.

A me Parthenope è sembrato, almeno ad un primo impatto, il risultato di una passione non domata. Non incanalata perfettamente, imprecisa, che vuole dire molto ma allo stesso tempo esagera, e ci marcia su questa capacità di esagerare, pensando di poterselo permettere: il risultato è un film che, più che essere commerciale, nonostante siano inseriti degli elementi che sicuramente piaceranno molto al pubblico americano, è comunque “troppo”. Parthenope è troppo. È difficile, duro, di dubbio gusto, come certi capolavori per palati difficili, c’è molto sesso ed anche una ricerca del grottesco, mescolato agli scenari perfetti che sono espressione autentica del Grand Tour ottocentesco. Ma c’è qui dentro, in tanta bellezza, anche la verve di un “ragazzino” e non lo spirito di un regista d’un certo tipo, o che perlomeno ci si aspetterebbe, ecco perché questo film ha ricevuto pareri molto contrastanti: come al solito si cerca di affossare Sorrentino e lui, nonostante tutto, riesce lo stesso a far parlare di sé.

No, Parthenope non è un film che può piacere a tutti: critica troppe cose e offende il senso comune benpensante, per il puro gusto di scandalizzare. Alle immagini dei luoghi più belli del mondo (trionfa Capri, su tutto) viene accostato l’orrido della bruttezza umana, e quest’orrido, il male e la bellezza, sono qui così intrinsecamente uniti fra loro, mostrati come parte di un tutto inscindibile. Perlomeno a Napoli. Credo che Sorrentino abbia capito che la bellezza è nell’unità, e perciò questa debba comprendere anche il dolore.

L’ha capito pure Parthenope, che dallo splendore passa ad una fase discendente; nella pellicola si vede l’ascensione e la caduta di una ragazza che era stata dotata dalla natura sia di bellezza che di intelligenza e che il destino porta su una strada inaspettata da tutti, anche da se stessa. Una ragazza che necessitava di scoprirsi e che viene cambiata, oserei dire smorzata, dagli eventi e anche da una città che è come un mostro, una città così bella che inghiotte ogni cosa, soffocandola, impedendole di fiorire.

Proprio come diceva La Capria, in una citazione forse in questo momento banale, ma inevitabile, Napoli è una città che “o ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme“, ed è per questo che Parthenope, ottenuta la cattedra universitaria a Trento, decide di non tornarvi mai più.

Consigliato: sicuramente.


“Ma tu, perché vuoi andare al freddo?”

“Perché è impossibile essere felici nel posto più bello del mondo.”