di Antonio Vecchione
“Ma che sono “’e ponte e bacchette”? E’ la domanda che mi è stata rivolta da chi, ascoltata la “canzone re ciente paise” da me pubblicata sulla bacheca di fbk, non sapeva di che cosa si trattasse. Lo scenario popolare evocato dalla canzone è ormai consegnato alla memoria delle vecchie generazioni e i giovani, spesso appiattiti sulla dimensione del presente, ignorano costumi di vita di epoche lontane. Ma è una domanda che ho apprezzato per la curiosità e l’interesse dimostrato e che mi ha motivato a illustrarne i significati. Conoscere la storia “minima” della propria comunità è un modo per sottolineare l’importanza della memoria, per dare spessore culturale e consapevolezza identitaria ai giovani. La “canzone re ciente paise” è una pagina di storia popolare che emerge dal passato e ci offre uno spaccato di un modello di società scomparso ma che merita di essere raccontato. Io l’ho scoperta molti anni fa, nel 1976, in occasione di una originale manifestazione tenutasi a Pomigliano d’Arco: la esibizione di gruppi che tenevano in vita l’antico spettacolo carnevalesco della “ZEZA”. Vi parteciparono compagnie di figuranti provenienti da varie località, prima di tutto da alcuni paesi irpini, come Bellizzi e Mercogliano, dove questa suggestiva tradizione, ancora oggi, è particolarmente viva e sentita. Anche la nostra comunità baianese fu presente; a Baiano operava un gruppo organizzato ed entusiasta fin dagli anni quaranta/cinquanta, che animava il carnevale baianese offrendo uno spettacolo nelle piazze e nei vicoli atteso ed apprezzato.
Era il nostro carnevale, gioioso e partecipato, con la Zeza, i Mesi, la quadriglia finale. Purtroppo proprio da quegli anni settanta abbiamo registrato un lento declino di questo spettacolo, tenuto in vita miracolosamente e saltuariamente dalla Pro Loco, ma privato ormai dello storico radicamento. La manifestazione fu organizzata dal gruppo musicale dei “Zezi” di Pomigliano d’Arco. Nato a metà del 1974, padre fondatore Angelo De Falco, ‘o prufessore il gruppo vanta una ricchissima storia artistica, culturale, sociale ed ha saputo coniugare la più schietta e genuina tradizione popolare con temi di drammatica attualità, come le battaglie sociali e di protesta molto vive, all’epoca, all’interno delle fabbriche come l’Alfa Sud, Alenia o Italsider. In tutti questi anni i ZEZI, con la loro produzione artistica, hanno testimoniato il loro impegno civile con un entusiasmante valore aggiunto quello della fiducia e della speranza in un cambiamento per un futuro migliore, nella convinzione che far riemergere la memoria e
l’identità culturale del nostro territorio vesuviano, da Napoli a Baiano, l’intera Campania Felix, sia linfa vitale per la rinascita delle nostre comunità. Grazie a questa particolare sensibilità, i Zezi hanno cercato, studiato e riportato alla luce antichi canti popolari. La “canzone ‘re ciente paise” fu una di queste cantate, riscoperta dai Zezi grazie a uno straordinario personaggio di Brusciano, Ciccio Palladino, detto “fragnone” (“zoccola vecchia”, nel senso buono del termine, come persona, vestita di nero, teatrante, sempre al
centro dell’attenzione). Ciccio era un cantastorie di strada, bizzarramente vestito, con cappello nero a cilindro, camicia bianca, un frac nero con garofano rosso al petto, con nastri e medaglie varie. Era uno degli ultimi “pazziarielli” napoletani, all’epoca un vero mestiere, un artista che, con musica, canti e formule magiche, girava per paesi e contrade offrendo, per un piccolo compenso, i suoi messaggi beneauguranti a negozi e famiglie. L’incontro iniziava sempre onorando il pubblico e la scena con una “benedizione” laica a base di abbondante profumo di incenso e pronunciando la formula:
“… ccà stà venenno zì Vicienzo… Uocchie maluocchie, cienze sante e cienze ricche a casa vosta comme a franfellicche!”.
Ciccio girava e raccontava per strade, piazze, cortili e locali e nel suo variegato repertorio, spesso fantasioso e inventato al momento in funzione degli ambienti e degli spettatori, c’era anche la canzone “re ciente paise”, una filastrocca cantata e recitata, un’antologia etnica per descrivere le realtà urbane tra Avellino e il territorio Vesuviano, lungo l’asse della strada Nazionale delle Puglie. Le origini di questa canzone non sono chiare e si perdono nella memoria, ma non è improbabile che sia stato proprio Ciccio, nel suo girovagare da Avellino al territorio vesuviano, a comporla, rappresentando le realtà comunali per quelle che apparivano ai suoi occhi di curioso “viandante”. Certamente ha il merito di esserne stato il geniale e primo interprete e di averla fatta conoscere e apprezzare. La rilevanza culturale del testo e della canzone emerse subito con chiarezza e convinse i Zezi a metterla nel loro repertorio e a cantarla per la prima volta dal palco del Festival dell’Unità tenutosi alla Mostra d’Oltremare di Napoli nel 1976 e poi, riarrangiata, nel CD del 2011. La registrazione LIVE di quell’evento può essere considerata un preziosa testimonianza storica di cultura popolare campana. Il testo è una rappresentazione dell’ingenua concezione di vita della società di allora e dei valori che la caratterizzavano e traccia le linee principali di una identità, bella o brutta che sia, ma sempre identità. Una cantata popolare che ha come palcoscenico la strada ed è tramandata per via orale è necessariamente soggetta a modifiche, modellandosi e trasformandosi, poi, in funzione di sensibilità, conoscenza ed esperienze diverse. Angelo De Falco mi fece conoscere questa canzone e, in questa occasione, mi ha messo generosamente a disposizione la registrazione originale del 1976 e il testo.
L’incipit della cantata è un invito a prestare attenzione, un invito schietto, confidenziale, da persone a persone che si capiscono, dello stesso mondo e della stessa cultura e quindi in perfetta sintonia:
Avutateve accà, avutateve allà,
sentiteme a me ch’ v’aggia parlà,
tengo nu fatto ca v’aggia cuntà.
Poi entra subito nel merito della storia:
ciente paise aggio cammenato,
quante rifiette aggiu truvato,
napule bella nun l’aggiu truvato,
castagne, semmente e nucelle nfiurnate,
e cheste è a vita re disperate.
Poche pennellate e lo scenario è dipinto con straordinaria efficacia. Il narratore sembra quasi evidenziare la fatica per questa esperienza di “cammino”, lento, guardando intorno con occhio curioso e interessato i vari paesi attraversati, dove non trova il lusso e la vita agiata di una “Napoli bella”, ma è un percorso tra povertà, difetti e scarni menù di una società contadina che si arrangia con i prodotti della terra a buon mercato, castagne, semmente (semi di zucca) e nocciole, testimonianza inequivocabile di una vita durissima e quasi senza speranza, di gente misera (disperati, in lingua napoletana). Poi la canzone entra nel vivo e presenta una sequenza di immagini dei vari paesi, spesso fiorite, alcune bizzarre e fuori dal comune, altre poco commendevoli o addirittura irriverenti, che trovano la ragion d’essere in consuetudini, usanze o attività, oggi consegnate alla memoria, ma che hanno lasciato il segno nella sensibilità di chi osservava dall’esterno. Sono definizioni lapidarie, secche, di una o due parole, che ci rimandano a modi di vedere e sentire di antica cultura, che illuminano di una luce particolare le comunità. Ed è proprio il caso delle realtà del nostro Baianese – Avellano. Il percorso seguito è, come ho già indicato, quello della strada nazionale delle Puglie. Dopo Monteforte (‘a cchiù fforta sagliuta è Monteforte) e ‘o Ponte ‘e Coppa (‘e rrobbacappotta d’’o ponte e coppa, un luogo per briganti di strada in quanto la ripida salita costringeva i carretti ad andatura lentissima e quindi facile preda di ladri), ecco il nostro mandamento, con quattro citazioni su sei.
‘e suppressate stanno a Mugnano
Mugnano non poteva che essere citata per la sua produzione di salami, un’attività che trae la sua origine certamente dalla consuetudine delle nostre famiglie contadine di crescere il maiale per produrre, con la sua carne, le buone cose per consumo familiare. Poi ci fu qualcuno che ebbe la brillante idea di allevare qualche maiale in più per aumentare la produzione e vendere a terzi, una vendita facilitata dal passaggio continuo di persone sulla nazionale. Fu una intuizione geniale che diede positivi risultati. L’esempio di queste piccole imprese, all’inizio limitate all’interno di gruppi familiari, che potrebbero essere collocate all’inizio del ‘900, fece scuola. Le attività si moltiplicarono e le vendite si espansero fino a interessare tuta la regione e oltre. Il successo fu straordinario se si pensa che negli anni cinquanta la comunità annoverava una quindicina circa di vere e proprie industrie con qualche centinaio di addetti e una numerosa schiera di attività collegate. In tanti si inventarono operatori commerciali e, ogni mattina, con furgone carico di salami, salsicce, capicollo, pancetta, lombi e anche frattaglie, si muovevano per la regione intera per servire una fedele clientela, migliaia di piccole e grandi salumerie, prima di tutto nella città di Napoli. Il fiorire di questa attività portò benessere e ricchezza alla comunità e Mugnano conquistò la meritata fama del “paese delle soppressate”.
‘e ponte ‘e bacchette e fanno a Baiano,
Curiosa e inconsueta l’immagine di Baiano, certamente sconosciuta e “misteriosa” per le giovani generazioni poiché fa riferimento ad attività particolari esercitate fino ai primi anni del secolo scorso. “‘E ponte ‘e bacchette” dette anche “’e puntette” erano quella specie di ciuffo o fiocco fissata alla parte terminale non rigida della frusta (‘o scurriate) per avere un più sonoro schiocco allorché si doveva sollecitare il cavallo ad assumere un’andatura veloce. Erano confezionate da donne con del caratteristico filato di seta colorato di verde per conferire un grazioso tocco estetico alla frusta (talvolta si intrecciava anche canapa adornata poi da un ciuffo di lana o cotone colorato). Era uno di quei mestieri inventati per arrotondare i magri guadagni delle famiglie sfruttando, per la lavorazione, gli intervalli di tempo tra i tanti impegni familiari. Il frequente passaggio di carretti sulla nazionale costituiva una ghiotta occasione per vendere “‘e puntette” ai “cocchieri” e, per questo, alcune donne presenziavano quotidianamente la nazionale per incrociare questa domanda. Ed ecco che nell’immaginario popolare la vendita delle “puntette” è rimasta come attività preponderante baianese. Occorre aggiungere che il sostenuto traffico di carretti poteva anche offrire altre opportunità di guadagno: vendere, ad esempio, erba e fieno per alimentare i cavalli, che, impegnati per una giornata intera a tirare carretti, avevano necessità di mangiare continuamente. Una richiesta che poteva procurare altri vantaggi economici ai nostri contadini, se non fossero stati costretti a rinunciare per la spietata sudditanza ai “padroni”.
La storia è semplice. Il più importante (e durissimo) lavoro nei campi, quello che precedeva tutto il programma annuale di coltivazioni, era la semina del “pascone”, un misto di erbe e piante composto da segala (‘o jurmano), fave selvatiche (‘e faucce), lupino, rape, “rapeste” (sorta di rape selvatiche), erba medica (‘o pprato) ed altre piante erbacee: l’insieme costituiva un “prato speciale” con una duplice ed essenziale funzione:
concimare, arricchire i terreni con gli elementi azotati di cui era ricco il “pascone”, sotterrando le piante raccolte;
procacciare foraggio, l’erba medica soprattutto, da conservare per sfamare gli animali, come i cavalli.
La semina del “pascone” e la successiva fertilizzazione era una passione, un vero e proprio atto d’amore, che segnava ogni anno il rapporto, forse più che carnale, con la “propria” terra, vissuta con trepidante, ansiosa partecipazione. Ma proprio per questa fondamentale funzione, i signori, che possedevano e davano in fitto la maggior parte dei fondi agricoli, vietavano ai sottomessi affittuari la vendita di erba del “pascone” a “cucchieri” (vetturali) e “trainieri” (carrettieri), necessaria per l’alimentazione dei cavalli. La loro preoccupazione era conservare o addirittura aumentare il valore economico della terra evitando il degrado della “capacità fecondativa” per sottrazione di erba. Una prescrizione esagerata, che impediva ai contadini di recuperare piccole somme di denaro dalla logorante fatica dello zappare.
‘e mangia cipolle se trovano Avella
Ed eccoci ad Avella e alle sue “cipolle”, una eccellenza territoriale, colpevolmente
dimenticata: “‘e cipolle doce e bianche di Avella”, apprezzatissime per le qualità organolettiche e curative, che costituirono per lunghissimi anni il nutrimento dei “poveri”: pane e cipolla erano la dignitosa dieta di chi, nella difficoltà, cercava di non aver bisogno di nessuno. Il Clanio, lo storico fiume di Avella, che, dai monti, scorreva nel vallone Fontanelle per tutto l’anno, con la sua ricchezza d’acqua creava condizioni particolarmente favorevoli per questa coltivazione I contadini ne potevano chiedere l’uso per l’irrigazione previo pagamento del costo del servizio, che era fissato a tempo. I campi coltivati a cipolle erano disseminati in tutto il territorio. Due canali partivano dal Clanio e, dopo aver attraversato località Fusaro, scendevano verso Baiano e Sperone, fino alla Stazione Circumvesuviana, dove era posizionata una grande vasca di raccolta per rifornire di acqua i treni a vapore (l’attuale via Vasca). Tutta questa zona era denominata “Parula” e, per la facilità di irrigazione grazie ai canali, era quasi interamente coltivata a cipolle. Da tutta la regione venivano ad Avella compratori a prelevare le preziose “dolci” cipolle e le contadine non si risparmiavano e si recavano al mercato di Nola con enormi ceste di cipolle da vendere.
Il Clanio, dunque, e le sue sorgenti hanno sempre avuto importanza fondamentale per l’economia avellana e si può ipotizzare che il declino di questa coltivazione sia anche stata determinata dalla scomparsa del fiume Clanio. Ricordo, infatti, che alla fine degli anni cinquanta, ad opera della Cassa del Mezzogiorno, fu progettata e realizzata la captazione di numerose sorgenti del Clanio, che, eseguiti i lavori, si trasformò in un torrente secco per tutto l’anno o quasi. La lunga storia di questo fiume, sempre tormentata, cominciata alla fine dell’ottocento con una disputa legale tra i proprietari privati di molte sorgenti (eredi della duchessa di Tursi) e la pubblica amministrazione, ebbe il suo epilogo con le tonnellate di cemento armato della Cassa del Mezzogiorno riversato nell’alveo. Chissà se, con l’affermazione di modelli di sviluppo Green, non si abbia la capacità e la lungimiranza di restituire ad Avella il fiume e le eccellenze agricole avellane. E’ l’auspicio conclusivo.
‘e gravunare song ‘e Sperone
“‘E gravunare”, ovvero coloro che producevano e vendevano carbone. Per capire l’importanza di questa attività, è necessario ricordare che, all’epoca, il carbone e la legna erano le uniche, preziosissime fonti di energia, indispensabili per riscaldare la casa e per cucinare. La produzione di carbone era diffusa, non soltanto a Sperone, ma in tutto il territorio del baianese e procurava un discreto reddito. Il mercato del nostro carbone era l’intera Campania ed in particolare la città e la provincia di Napoli. Fino allo scadere degli anni ’50, dai nostri centri urbani a valle, si notavano quotidianamente sulle nostre montagne i numerosi pennacchi di fumo dei “catuozzi”, le carbonaie attive per la produzione di carbone, che vi erano disseminati. “‘O Catuozzo” era costituito da una catasta semisferica di pezzi di legname costruita con tecniche speciali, in modo da lasciare una sorta di camino vuoto centrale. Alta all’incirca tre metri, veniva fatta bruciare in maniera incompleta, in atmosfera carente di ossigeno, senza fiamma, per impedire che si riducesse in calore e cenere e in modo da ottenerne carbone (un condensato naturale di energia termica). La tecnologia per gestire i “catuozzi” era diventata patrimonio di conoscenza di numerosi boscaioli e contadini anche perché offriva un reddito sicuro. Si sfruttava ogni tipo di legna, soprattutto i residui dei tagli dei boschi ma anche i rami degli alberi potati. Il carbone ottenuto si caricava in sacchi e trasportati a valle da energiche donne che li tenevano miracolosamente in bilico sulla testa, con il peso ammortizzato dal “curuòglio”, un cercine, una corona di stracci raccolti in forma circolare, e ai piedi una sorta di calze-scarpe (‘e paposce) di panno pesante, rinforzato nel plantare da numerosi strati di cenci per camminare più agevolmente su terreni accidentati. Il carbone era poi venduto non soltanto a concittadini, ma soprattutto a clienti della regione nei numerosi negozi che si affacciavano sulla strada nazionale, in particolare a Sperone. La fama di paese “re gravunare” nasce da questo commercio affacciato sulla nazionale.
Avutateve accà, avutateve allà,
sentiteme a me ch’ v’aggia parlà,
tengo nu fatto ca v’aggia cuntà.
ciente paise aggio cammenato,
quante rifiette aggiu truvato,
napule bella nun l’aggiu truvato,
castagne, semmente e nucelle nfiurnate,
e cheste è a vita re disperate.
E castagne belle e fanne a Muntella
e purucchiusi song e Chiusano,
E piscaituri d’atripalda,
a pasta fine se fa a Avellino
e femmene belle so e Lauranello
a Mercugliano sta a murtadella
e fittalietti ro Spitaletto (Ospedaletto)
a cchiù fforta sagliuta sta a Munteforte
e robbacappotte ro e Ponte e Coppe
e supressate stanna a Mugnano
e ponte e bacchette e fann a Baiano
e mangiacipolle se trovano Avella
e gravunare song e Sperone
e spurtellare se trovano a Schiava
e spaccaponte song e Tufino
e zingareschi song e Cicciano
e guardiapign so e Comiziano
e squarciuncielle so e Campasano
e scarpisasante so e Cimmetile
e figlie e surdate song e nulane
e conciaseggie stann a San Paolo
e viecch stann a Liveri
e picciapagliare song e Marzano
e nfamun se trovano a Lauro
o fierro bell sta a Muschiano
e terzettarie so e Palma Campania
e mangiatozzole song e Sarno
e ppastenache stann a Nucera
e cavuliciuri s trovano a Angri
e maccarune stann a Gragnano
e sciacquapall e Castiellammare
e commerciature r’Annunziata
e merdaiuoli ra Torr ro’ Grieco
e putecari so e Passanti
e trareture so e Poggiomarino
e facc e corn so e San Giuseppe
e figlie e principe a Ottaviano
e mangialupini e Costantinopoli
e scatulapruna song e summisi,
e delinquent stannna a Chiazzolla
e votalenzola do Pagliaron
e figlie e prievete e Saviano
e mangiapatan e San Vitaliano
a disperazione se trova a Scisciano
e mangiacuozz e Frascale
e raggiat so e Casafierr
e ruffiane so a Marigliano
e portagunnella so e Mariglianella
e commerciante e patane stann a Brusciano
e spaccapreta song e Cisterna
e cavallare so e Pummigliano
e fattucchiere e Santanastasa
e sardagnuol abbasc a maronn
e mangiascagnuozzo song r’Acerra,
o pane e alici sta a San Felice
chille ra Arienzo ne damme aurienza
e sapunare ra ncoppa Arpaia
e pignate e scassano a Muntesarchio,
e curnuteea S. Martino e panarano,
e segature so e Cervinare,
e sciccastucchie so e Rotunne
e mbrugliun so e Maddaluni
Capua e Caserta ca vocca aperta
e o’ cannavastà a Marcianise
a muzzarella sta a Cardito
o’ capocuollo sta a Giugliano
e stuppagliusi a Frattamaggiore
e e pazze stanne a Aversa
e sulachianiel stan a San Pietro
l’aglie e cipolle stanne a Afragola
e pulliere so e Casalnuovo
e parulare stanne a Volla
e scassavarrecchia se trovano a Cercola
e marenare so e SanGiuvanniello,
e piattare stanno a resina,
e guappe e jurnata a sanità,
e femmene belle so e Vasto e Chiaia,
e mariuncielli so e punticielli,
e marunnari stanno a Pompei,
e pummarole stanno a Scafati.