Nel 2009 dedicarono un brano al castello di Avella, contenuto nell’album “The Stones of Naples”. Ne esce una ristampa proprio quest’anno, insieme al loro ultimo lavoro “The Moon is a Dry Bone”. Le Corde Oblique sono molto apprezzate all’estero e vogliono rappresentare un punto d’incontro tra musica e storia dell’arte, descrivendo la bellezza della Campania.
Tra i loro brani più famosi del passato c’è infatti In The Temple of Echo, registrato sfruttando l’eco naturale del Tempio di Mercurio presente nel sito archeologico delle Terme di Baia.
La loro musica, di un genere piuttosto di nicchia e che si potrebbe definire folk-gaze (una miscela di folk e di shoegaze, un derivato molto introspettivo dell’alternative rock) – è stata utilizzata più di una volta in passaggi RAI. Nel loro ultimo album invece si va dalle torri di Maddaloni ad Ercolano, passando per Pozzuoli.
È infatti originario di Pozzuoli il loro leader, Riccardo Prencipe, che abbiamo intervistato, facendo particolare attenzione al rapporto della band con il castello di Avella e tutta l’Irpinia.
Nel vostro ultimo disco, “The Moon Is a Dry Bone”, due canzoni portano nomi di luoghi: “Herculaneum” e “Le torri di Maddaloni”. In quest’ultima collaborate con Irfan. Potete spiegarci qualcosa di più su questa canzone, sul cantato e su come e perché è stata composta? Sono torri che si vedono spesso da lontano, spostandosi per la Campania, ma che a pochi viene in mente di visitare.
Riccardo Prencipe: Da circa 4 anni insegno Storia dell’arte in un liceo di Maddaloni. “Le torri di Maddaloni” è stata scritta grazie ai lunghi e continui spostamenti tra Napoli e Maddaloni. La provincia sottrae delle cose e ne dona delle altre. Vedevo quelle due torri solitarie e stanche in un paesaggio desertico, ho iniziato a immaginarle come due persone distanti e vicine allo stesso tempo, le ho pensate come due accordi, solo due, un alternarsi monotono, ma tra di essi doveva esserci un fraseggio sempre diverso. Trattandosi di torri militari volevo anche a un momento dirompente. Per questo paesaggio visivo è stato naturale affidarsi alla voce bulgara di Denitza Seraphim, una voce a me vicina e lontana allo stesso tempo. Il testo non esiste, si tratta di versi ispirati al paesaggio descritto sopra, ma soprattutto ad una rievocazione del suo passato. Denitza è un’artista eccellente, ed eccellente è stato il lavoro percussivo di Michele Maione. Un brano a cui sono particolarmente legato.
Facendo un excursus tra i vostri 8 album, si nota subito che avete dedicato brani sia a luoghi assolutamente famosi – per i quali si potrebbe attraversare l’oceano pur di vederli – ma anche riconosciuto il fascino di luoghi minori o più per intenditori. Cos’è che conta di più per voi e che vi porta a scegliere un luogo anziché un altro per le vostre canzoni? Il vissuto, le emozioni, la frequentazione, il desiderio di far conoscere agli altri? Hai centrato in pieno tutti gli aspetti. Nella domanda è contenuta già parte della risposta. Si tratta di una macedonia di sensazioni, visive e sentimentali. L’aspetto divulgativo è molto presente. Avendo lavorato come guida turistica ed essendomi sempre percepito – in piccolo – anche come un militante della divulgazione storico artistica, non può che essere forte.
Un altro brano, con Maddalena Crippa, è “La casa del ponte”. Cos’è questa casa del ponte? La casa del ponte è la casa in cui sono cresciuto, si trova a Pozzuoli, vicino a un ponte, ed era immersa nel verde; lo è in parte ancora oggi, anche se nel corso degli anni le nuove strade hanno divorato quelle campagne in cui giocavo da bambino con i miei amici. Sono cresciuto in un’era totalmente analogica ed in una realtà molto piccola, anche questo mi ha dato molta fame di conoscenza, quei ricordi minuti sono per me un vortice di bene che terrò sempre come riferimento. Ascoltai Maddalena Crippa durante il Requiem di Roberto de Simone al San Carlo e ne rimasi folgorato. Non potevo desiderare voce più adatta per interpretare quei ricordi. In questo brano inoltre i musicisti hanno svolto un meraviglioso arrangiamento: Edo Notarloberti al violino, Umberto Lepore al basso, Alessio Sica alla batteria e la nuova voce Rita Saviano hanno dato il vero bagliore a questi pezzi.
Quest’anno, oltre a “The Moon Is a Dry Bone”, è uscita anche la ristampa di un vostro disco del 2009, “The Stones of Naples”. Qui c’è un pezzo intitolato “Dal castello di Avella”. Com’è nata questa canzone? Durante un viaggio in Puglia, sulla Napoli-Bari, venni folgorato dalla vista del Castello di Avella, mi sembrò di vivere in uno dei dipinti quattrocenteschi di Cima da Conegliano o di Giovanni Bellini, dove – alle spalle dei personaggi – ci sono questi castelli e borghi meravigliosamente intatti, con tanto di perimetro murario.
Appena ho potuto sono tornato al Castello di Avella diverse volte, sia per piacere che per studio. Durante il dottorato di ricerca infatti incrociai anche questo castello, nel medioevo proprietà anche della famiglia Del Balzo (che studiavo all’epoca). I pensieri sui miei studi e sulla durezza e superbia che spesso accompagna il sapere sono stati per motivo di rifugio nella catarsi musicale, in particolare a quei tempi.
Vorrei chiedervi, visto che siamo una testata della provincia di Avellino, con sede proprio ad Avella, se ci sono altre canzoni che i nostri lettori dovrebbero ascoltare, che contengono riferimenti all’Irpinia. Oltre a “Dal Castello di Avella” direi sicuramente “My pure amethyst”, in cui si parla dei monti della bassa irpinia. Il video inoltre è stato girato a Senerchia, sempre in provincia di Avellino.
C’è qualche paese o località irpina che vi affascina particolarmente e per il quale avete qualche idea in cantiere, o di cui avreste voluto parlare ma non c’è ancora stata occasione? In passato, quando si poteva viaggiare, seguivamo spesso in Irpinia due cari amici (Mariangela Contursi e Vincenzo Longo) che avevano la passione per i borghi abbandonati. Ne ho visto ed esplorato molti con loro, ho un ricordo particolarmente bello e disteso di Zungoli. Ricordo degli scorci fenomenali sulla campagna irpina. Mi chiedo anche come debba essere bello e allo stesso tempo problematico vivere in posti così isolati, se invece si cerca altro. È facile per noi cittadini osannare la bellezza e l’autenticità della vita di campagna quando per noi è solo una parentesi e non ne soffriamo tutte le conseguenze. Ora che vivo di nuovo in provincia sto capendo tante cose.
Mi piacerebbe farvi la stessa domanda anche per la provincia di Benevento, visto che ha dei tratti in comune con l’Irpinia e culturalmente, specie nelle zone di confine, i paesi delle due province sono molto simili. Ammetto di conoscerla veramente poco, molti anni fa andavo spesso a Cusano Mutri, adesso ci manco da un po’, ma è la provincia campana che più devo approfondire (A parte Benevento che ho visitato spesso). Ricordo che facemmo una colonna sonora per una mostra che riguarda anche il Beneventano, si chiamava “I Longobardi del Sud”. La parte video venne realizzata da un bravissimo operatore di nome Marcello Malaguti, dovrebbe esserci ancora qualcosa su Youtube.
I Corde Oblique sono molto apprezzati all’estero. Parlate della Campania e di luoghi italiani, ma il vostro sound – che nell’ultimo disco definite folk-shoegaze (ricordiamo ai nostri lettori, che lo shoegaze è una corrente inglese) attinge parecchio dai paesi stranieri. Come vi approcciate invece alla tradizione napoletana, musicalmente parlando? Riconoscete qualcosa di essa nelle vostre radici? La musica napoletana antica è tra le espressioni più alte e belle di musica popolare al mondo. Non dimentichiamo che i brani degli anni d’oro della musica napoletana risalgono alla metà dell’Ottocento ed hanno una complessità ed una vastità armonica e melodica che fa impallidire la musica popolare di mezzo mondo. Non dimentichiamo che Napoli è l’unica città al mondo ad avere una scala musicale ad essa dedicata (la scala napoletana). Certo pensare che oggi per musica napoletana si intenda il neomelodico è deprimente, così come è deprimente realizzare che siamo piombati in una valle di lacrime per il settore cultura. Per fortuna ci sono delle oasi di resistenza, per fortuna i musei campani stanno funzionando molto meglio di prima grazie a nuovi direttori e nuovo personale di grande competenza e volontà. Per fortuna esistono eccellenze come l’Istituto italiano per gli studi filosofici, che da sempre costituisce un’eccezione in una città che, culturalmente parlando, non vive più gli anni d’oro da troppo tempo ormai. Proprio ultimamente l’istituto sta spingendo per una battaglia a favore degli artisti e sono grato a nome di tutti a questo istituto e al presidente Massimiliano Marotta.
Sicuramente in “The Moon Is a Dry Bone” colpisce l’eterogeneità dei pezzi, il modo in cui spaziate tra diversi stili ed atmosfere. A cosa è dovuta? Ai miei gusti schizzati e schizofrenici. Nella vita ho ascoltato tanta musica apparentemente diversa, il filo comune è: musica controcorrente, musica diversa. In direzione ostinata e contraria.
Alla ristampa di The Stones of Naples avete aggiunto invece due tracce live, Venti di sale ed Eventi, registrate in Albania nel 2019. Come mai avete scelto proprio questo live? Girate molto e sicuramente la scelta non vi sarà mancata. È stato un concerto particolare? È vero che Giriamo molto, ma non sempre è possibile ottenere una registrazione live con dei suoni decenti. Grazie al Consolato Generale di Italia a Valona è stato possibile effettuare una registrazione del concerto. Quelle esecuzioni sono state molto energiche e ne siamo rimasti soddisfatti. Sono molto grato alla band e alla nuova voce, Rita, che le ha interpretato con alto coinvolgimento emotivo, è quella la prima cosa che conta. Ringrazio in particolare Stefano Bergesio, Maria Cristina Natalizia per il grande supporto.
Un’ultima domanda prima di salutarvi. Ora che il vostro album è appena uscito, ma l’organizzazione dei concerti a causa della situazione di emergenza mondiale è molto incerta, a cosa intendete dedicarvi? Avete già nuovi progetti? Sono molto scaramantico e per scaramanzia non parlo quasi delle cose a cui mi dedico, in quanto ho paura che non si realizzino. in generale sto utilizzando questo tempo morto per sistemare alcune cose lasciate nel cassetto, sto cercando di scrivere il meno possibile. Scrivo musica e testi di canzoni da quando ho 15 anni, ora ne ho 42, una pausa non può che giovare me e i nostri ascoltatori. Siamo in un’epoca di grande produzione, ma di poca sostanza. Credo che la scrittura nasca dai nuovi entusiasmi, dalle nuove esperienze di vita, se la vita va sott’acqua non possono uscire cose particolarmente interessanti, quindi meglio darsi allo yoga e alla ginnastica, il mondo è già sommerso da tanti dischi inutili, non vorrei contribuire a mia volta. PS: Grazie per questa bella intervista, è un piacere rispondere alle domande quando sono fatte bene.
Intervista a cura di Valentina Guerriero
Sono le matite del tempo quelle che incidono,
come scalpelli e bulini, pietre e cornici.
E ora, valle, raccontami
senza parole, né icone, la tua orografia.
C’è chi nasce e cerca di ridere,
c’è che muore senza morire.
Ciò che mi ispira e protegge è il buon senso degli umili.
Libri soli, libri che restano
carte sole, pietre che parlano:
“l’unico vero futuro è imparare da capo.”
(Dal Castello di Avella, Corde Oblique)