Antonio Caccavale
Ne “La banalità del male” Hannah Arendt scriveva che “il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso.”
Se quanto scrisse la Arendt valeva per le persone succube di regimi totalitari, tanti cittadini dei Paesi democratici di oggi fanno molta fatica o non riescono affatto a distinguere la realtà dalla finzione e il vero dal falso.
Una recente indagine condotta, nell’ambito del programma OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), ha rivelato (in realtà si tratta solo di un’amara conferma) che, in Italia, il fenomeno dell’analfabetismo funzionale è molto diffuso e lo è molto più che nella stragrande maggioranza dei Paesi oggetto dello stesso studio.
L’incapacità di comprendere un testo non particolarmente difficile e la difficoltà nell’effettuare calcoli anche abbastanza semplici, collocano la popolazione adulta del Bel Paese agli ultimi posti di un’apposita graduatoria internazionale. È particolarmente significativo che ad essere affetti da questa singolare “fragilità” sono anche persone che hanno conseguito un diploma di scuola secondaria di secondo grado e perfino molti laureati.
L’analfabetismo funzionale è andato sempre più crescendo nell’ultimo ventennio. Già nel 2008, il noto linguista Tullio De Mauro scrisse un articolo per la rivista settimanale “Internazionale”, che intitolò “Analfabeti d’Italia”, in cui, tra l’altro, affermava che “soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi nella società contemporanea”. Precisava che “questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi” scaturiti da “accurati campioni di popolazione in età lavorativa a cui è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente”. In quell’articolo, il professor De Mauro, non mancò di aggiungere che “I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l’80 per cento in entrambe le prove). Tra i paesi partecipanti all’indagine l’Italia batte quasi tutti”.
Se le ricerche effettuate tra il 1999 e il 2005 avevano fatto emergere un quadro molto desolante, secondo cui ben otto italiani su dieci manifestavano serie difficoltà a comprendere un testo scritto, l’indagine OCSE condotta nel 2022-23 conferma appieno quel risultato.
Più precisamente, la ricerca, effettuata nel summenzionato biennio 2022 – 2023 su campioni di adulti di età compresa tra 16 e 65 anni, aveva lo scopo di misurare le competenze che “consentono alle persone di affrontare in modo adeguato la vita quotidiana e di partecipare pienamente all’economia e alla società” attraverso “la capacità di lettura e comprensione di testi scritti e la capacità di comprensione e utilizzo di informazioni matematiche e numeriche”.
Ebbene, da tale studio è emerso che il 70% degli italiani adulti non possiede le competenze minime e necessarie per comprendere, valutare e utilizzare le informazioni che riguardano l’attuale società. È opportuno precisare che la mancanza delle competenze minime di cui sopra è risultata particolarmente rilevante tra gli italiani appartenenti alla fascia di età compresa tra i 55 e i 65 anni; meno gravemente carenti, in fatto di competenze minime, sono risultati i giovani tra i 16 e i 24 anni.
A questo proposito non si può non ritenere che uno dei motivi della maggiore incidenza dell’analfabetismo funzionale tra gli italiani appartenenti alla fascia di età compresa tra 55 e 65 anni, sia da attribuire alla sempre più accentuata disabitudine a leggere, a scrivere e a far di conto, a partire dagli anni immediatamente successivi al conseguimento del titolo di studio di istruzione secondaria di secondo grado e/o del diploma di laurea.
Va altresì evidenziato che, mentre i risultati raccolti dall’indagine Ocse tra gli italiani delle Regioni del nord e del centro Italia si sono rivelati molto più in linea con quelli della media riscontrata negli altri Paesi europei ed extraeuropei, quelli emersi tra gli italiani delle Regioni del mezzogiorno d’Italia hanno messo a nudo, in negativo, non poche difformità.
Di fronte al quadro molto problematico emerso dall’indagine Ocse occorre chiederci che cosa sia possibile e necessario fare, per evitare che svariati milioni di nostri concittadini restino in balia di una inadeguata capacità di affrontare la vita quotidiana e alla mercé di una rovinosa dappocaggine rispetto a tutto quanto accade nella società.
Se c’è qualcosa che va subito fatta è quella di attivare quanto previsto dalla legge n° 92 del 2012 in materia di “apprendimento permanente”; apprendimento permanente non solo ai fini dell’acquisizione di competenze necessarie al reinserimento nel mondo del lavoro, ma più in generale per aderire a quanto il Consiglio europeo raccomandava il 19 dicembre 2016 in merito ai percorsi da avviare per perseguire il miglioramento del livello delle competenze degli adulti. Al primo punto di quella raccomandazione, infatti, si legge:
“Nella società odierna è necessario che ogni persona possieda un ampio corredo di abilità, conoscenze e competenze, compreso un livello sufficiente di competenze alfabetiche, matematiche e digitali per poter realizzare appieno il proprio potenziale e svolgere un ruolo attivo nella società, assolvendo alle proprie responsabilità sociali e civiche. Tali abilità, conoscenze e competenze sono fondamentali anche per inserirsi fruttuosamente nel mercato del lavoro e per accedere all’istruzione e alla formazione terziaria”.
Un capitolo a parte, poi, non può che riguardare la scuola, che troppo spesso dà l’impressione di vivere e operare in un mondo a sé del tutto slegato dalla realtà. Di fronte allo scadimento che sta caratterizzando, sempre più, la scuola italiana, è urgente e necessario individuare e mettere in pratica tutte quelle metodologie e quelle strategie didattiche capaci di accompagnare gli alunni nell’acquisizione, più solida e duratura, delle competenze di base, quali sono la lettura, l’elaborazione di testi scritti, la comunicazione verbale e le operazioni di calcolo.
Non possiamo più permetterci di non dare la giusta importanza ai risultati, sempre molto scadenti che, ogni anno, gli studenti dell’Italia meridionale conseguono alle prove Invalsi.
Credo che nessuno abbia interesse a non fare il possibile perché i nostri studenti vengano messi in condizione di poter competere alla pari con i loro coetanei delle Regioni del nord e del centro Italia. Ma, soprattutto, credo sia doveroso fare tutto quanto è indispensabile per dare ai giovani di oggi tutti gli strumenti che consentano loro di diventare cittadini capaci di “realizzare appieno il proprio potenziale e svolgere un ruolo attivo nella società”.