di Antonio Vecchione
I servizi Postali, seppur bene organizzati e affermati nell’Europa di metà 800, erano scarsamente considerati dalle fasce popolari più umili, il cui livello culturale era piuttosto basso ed avevano grande difficoltà non soltanto a scrivere, ma anche a procurarsi e ad acquistare carta, busta e francobolli. Nel 1869 un’idea geniale cambiò lo scenario e determinò una positiva tendenza per gli scambi epistolari. In Austria fu introdotta una forma di corrispondenza semplificata che ebbe subito grande successo: la Cartolina Postale, un piccolo rettangolino di carta di colore avorio, già affrancato, sul quale scrivere soltanto indirizzo e poche parole di saluto, senza chiudere in busta, facilmente reperibile negli uffici postali a costi popolari. Un’idea brillante, dunque, che fu subito apprezzata e, in pochissimo tempo, si diffuse in tutta Europa (in Italia la prima fu messa in vendita nel 1874). Passarono soltanto pochi anni e si ebbe un altro fondamentale e innovativo passo in avanti. In Francia nacque l’idea di trasformare l’anonima cartolina “Postale” in una decorata con disegni, figure, simboli: nacque così la “cartolina Illustrata”, che piacque subito a tutti e costituì un’autentica rivoluzione del servizio postale. Ovviamente i primi esempi di “illustrate” erano semplici e limitati: si trattava, in genere, di propaganda politico – militare oppure di temi sociali e di avvenimenti di rilievo. Poi, con i progressi della fotografia e con l’evoluzione delle tecniche fotografiche, le immagini si moltiplicarono, potendo avvalersi delle riprese dal vero di bellezze artistiche e naturali di un luogo. Si capì subito che si trattava di una imperdibile occasione per farsi conoscere, per cui, da semplice biglietto di auguri o di saluto, la cartolina divenne un mezzo straordinario di propaganda e promozione di città d’arte e di località turistiche: panorami, monumenti, piazze, opere d’arte, capitali, zone marittime e di montagna cominciarono a circolare per il mondo intero. La produzione di cartoline si espanse con progressione geometrica e ne furono stampate in quantità infinite in tutto il mondo su iniziativa di enti pubblici o istituzioni oppure, più spesso, da associazioni o società private.
Per un più di secolo le Cartoline Illustrate sono state il miglior mezzo di comunicazione di massa, raccontando il mondo nella sua realtà e testimoniando, per immagini, i costumi di vita, lo sviluppo storico, sociale ed economico di quasi tutti i paesi.
Fino agli anni novanta del secolo scorso, dunque, spedire cartoline a parenti ed amici era diventato un modo naturale di curare le relazioni sociali, diffuso e osservato in tutto il mondo, un atto di cortesia dovuto e, diciamo la verità, con un sottofondo di personale vanità (una specie di auto – glorificarsi: vedete che bel viaggio sto facendo?). Ciascuno di noi, in partenza per località turistiche, soprattutto se si trattava di viaggi all’estero o in famose città d’arte, si appuntava scrupolosamente nomi e indirizzi di amici e parenti per la soddisfazione di partecipare gli altri al piacere del viaggio. Un costume di vita che ha simpaticamente caratterizzato i rapporti tra persone fino a una ventina anni fa circa, un indiscutibile segnale di amicizia e di pace, che aiutava a star meglio con gli altri. Poi, sotto i colpi delle nuove tecnologie, negli ultimi anni abbiamo assistito all’abbandono quasi totale di questa garbata consuetudine. Oggi lo scambio avviene non più su carta, ma attraverso mail, sms, WhatsApp, you tube, facebook, e rete in genere, tutti mezzi rapidi ed efficacissimi per scambiarsi saluti, auguri, foto, in tempo reale. Ma l’emozione di riceverli dura lo spazio di un momento, il tempo di leggere il messaggio, poi svanisce. Le “cartoline illustrate” ricevute, invece, erano una presenza fisica, mirate e rimirate con immutato piacere, girate e rigirate tra le mani, osservate con attenzione in tutti i particolari, mostrate a tutta la famiglia, per essere poi conservate in bella mostra in quadretti o cornici o incollate su muri o mobiletti in cucina. Addirittura diventavano un vero e proprio atlante di geografia per chi le collezionava. Ormai, purtroppo, appartengono a un tempo lontanissimo, dimenticato e i giovanissimi ne ignorano l’esistenza. Ed è per questo che, rivedendo delle vecchie cartoline di Baiano di quasi un secolo fa, ho provato un sentimento di nostalgica tenerezza. Quel mondo che non c’è più ricompare attraverso le foto che fermano un eterno momento. Ed ecco la Piazza, il corso, la stazione, la Chiesa, Fontana Vecchia, Collina di Gesù e Maria. Per un piccolo centro come Baiano, senza attrattive turistiche, gli unici ospiti sono sempre stati gli emigranti che gradivano e ricercavano le cartoline. Nei loro periodici (e abbastanza rari) ritorni a Baiano, tenevano orgogliosamente a inviare ad amici e parenti nella nuova Patria cartoline con le immagini del loro paese natale.
Ho ritrovato con grande emozione quattro esemplari di cartoline storiche, stampate forse negli anni settanta ma con foto risalenti ai primi del secolo scorso. Ho piacere a pubblicarle, aggiungendo anche alcune considerazioni.
A centro della piazza è la fontana che sarà poi smantellata e trasferita in piazza Mercato per far posto al monumento ai caduti. Fu posizionata prima nella parte superiore della piazza, tra l’ex cinema Sarno e l’ex casa dell’ECA (attualmente Banco Napoli), poi, negli anni sessanta, un nuovo spostamento a centro della piazza. Le parti in pietra sono rimaste le stesse; purtroppo è andata persa la splendida balaustra in ferro battuto che la circondava. Interessante il palazzo comunale e i locali a piano terra, che, essendo inseriti nel cuore della vita sociale baianese, hanno sempre avuto grande importanza, cambiando spesso destinazione d’uso, ma sempre con attività d’interesse pubblico. Partendo da sinistra, il primo locale era, all’epoca, un frequentatissimo bar – coloniali, di proprietà Agostino Litto. Dopo la guerra fu destinato a sede del PCI e, oggi, a circolo per gli anziani. Il secondo locale è stato storicamente destinato alle Poste (la larga insegna “TELEGRAFO” ne costituisce riprova) e tale è rimasto fino agli anni cinquanta (oggi è fittato a un Bar). Appena a destra del Portone principale, un’altra storica istituzione baianese, il Circolo Sociale, anno fondazione 1890, frequentato dalla medio – alta borghesia, cuore pulsante dell’attività politica, culturale, commerciale di Baiano. La lunga permanenza in quel locale fu interrotta per i lavori di ristrutturazione del dopo sisma 1980. Rientrare nella propria sede non fu semplice per un contenzioso aperto dall’Amministrazione comunale guidata da Stefano Vetrano, il quale non aveva mai nascosto la sua avversità ideologica per il sodalizio e i suoi soci. Infine fu trovato un accordo che obbligò il Circolo a rinunciare alla sua sede storica per spostarsi nel locali adiacenti, che all’epoca della foto era occupata dalla polizia urbana, come recita l’insegna, ma che dal dopoguerra in poi è stata la sede per più di 40 anni della Democrazia Cristiana, partito molto attivo e protagonista della politica nazionale (e baianese) fino agli anni di “mani pulite” (1992/94), quando scomparve per consunzione. L’ultimo locale del Palazzo è stato sede dell’agenzia del Banco Napoli per tutti gli anni cinquanta e sessanta. Una riflessione sulle persone ritratte intorno alla fontana. Due sono sedute davanti al Bar Litto; tutti gli altri guardano l’obiettivo e si capisce che sono in posa, quasi muti attori di una scena teatrale. Sono tutti o quasi ben vestiti, con camicia, giacca e cappello (allora immancabile). Si nota l’assenza di personaggi popolari, che raramente frequentavano la piazza e, probabilmente, a quell’ora erano a lavoro nei campi o nel bosco. Infatti l’orologio riporta l’ora, le 17.40 di una giornata luminosa e quasi certamente estiva o tardo primaverile. L’orologio sulla piccola torre centrale rivestiva fondamentale importanza per la scansione dei tempi della giornata dei baianesi. Fino agli anni sessanta i rintocchi della campana collegata all’orologio annunciavano l’ora a tutto il paese. “Che ora è suonata?” chiedeva chi, distratto, voleva conoscere l’ora. Anche i contadini, intenti al lavoro nei loro campi, regolavano la loro giornata sui rintocchi della campana,
- Corso Garibaldi e Piazza Ferrovia.
Ecco una seconda cartolina con la stessa piazza da angolazione diversa e, questa volta, denominata “Piazza della Ferrovia”. E’ una foto certamente più antica: non escluderei che possa risalire a fine ottocento o ai primissimi del novecento. Infatti non c’è traccia dell’architettura della piazza attuale, caratterizzata dai due piazzali alberati e simmetrici che incorniciano il centro con fontana (e poi monumento). Probabilmente dal palazzo municipale alla Stazione lo spazio era unificato e considerato come una piazza unica (Piazza della Ferrovia). Significativa la carrozza con cavalli posteggiata. All’epoca, e fino agli anni sessanta, tutto questo spazio prossimo alla Circumvesuviana era occupato e animato da numerose carrozze con cavalli, che vi stazionavano per tutta la giornata pronte ad offrire ai passeggeri arrivati col treno il servizio trasporto fino a Mugnano, Quadrelle o Sirignano. L’obiettivo è puntato verso corso Garibaldi, visibile fino a palazzo Boccieri. Da rilevare che sia il corso che la piazza non sono lastricati di basoli e quindi siano certamente molto prima degli anni venti, quando furono effettuati tali lavori. Il corso era un antico alveo e tale era rimasto per cui, ad ogni acquazzone, raccoglieva le acque piovane dalle vicine colline formando un vero e proprio torrente che scendeva rapido verso Sperone. E’ facile immaginare che, nella stagione delle piogge, l’acqua che scorreva creava difficoltà ad attraversare il corso da una parte all’altra per immettersi in via SS Apostoli e proseguire per il popolatissimo quartiere dei Vesuni. La soluzione è stata per anni e anni una specie di ponticello fatto di tavole di legno all’altezza del portone principale del comune, che, proprio per questo, è stato sempre chiamato “’o passo”. Nella foto c’è anche la conferma che il primo locale del palazzo comunale era il Bar Litto: infatti vediamo alcuni clienti seduti sul marciapiede davanti all’ingresso. Interessanti sono anche quelle piante che ornano la facciata del palazzo sul lato destro del corso, risalendo dalla piazza. Quasi certamente abbellivano l’entrata di una famosa “cantina”, attiva fino agli anni sessanta, quella di Pietro Carbone “’o sbafando” e di una pasticceria collegata. Interessante anche il locale – negozio a piano terra del palazzo a due piani, ancora esistente, che affaccia sulla piazza. L’insegna non è leggibile, ma si capisce chiaramente che è una macelleria: sulla destra, appena all’interno della porta, vi è un solido uncino di ferro al quale si agganciavano i quarti di bue da esporre (oggi è vietatissimo, ma, fino a qualche decennio fa, la carne era esposta all’aperto senza alcun problema). Il titolare era Pasqualino Picciocchi, che poi lasciò bottega e attività alla figlia “Ngiulinella a Sciuppilona”, apprezzatissima per l’eccellenza della carni dal primissimo dopoguerra fino agli anni sessanta. La qualità delle carni era anche dovuta al fatto, oggi impossibile per legge, che sia il padre che la figlia, acquistavano solo vacche selezionate che poi macellavano in proprio in un locale appena dietro la macelleria, che affacciava sulla stessa piazza.
- Fontana Vecchia
Una bellissima inquadratura di Fontana Vecchia. L’albero a centro della minuscola valle, oggi alto e maestoso, è ancora giovane. La cappella ha una facciata semplice, ma ben disegnata, con il portale e due finte colonne di stucchi che reggono un perfetto frontone. Il fabbricato, oggi semidiroccato e inabitabile, appare come una comodissima casa di campagna, con finiture curate, dove Don Aniello Sales trascorreva intere giornate e molti studenti passavano la giornata nel silenzio per concentrarsi sullo studio. Sul terrazzo superiore fa bella mostra un bel pergolato mentre in quello inferiore si notano dei vasi sul muretto di affaccio, segno di una particolare attenzione e di frequenza quotidiana. La foto è animata da ragazzini sorridenti in primo piano, sotto lo sguardo di un signore, comodamente seduto, intento a leggere un libro nella pace della campagna. Curiosa la scena di un altro signore arrampicato quasi in cima a una lunghissima scala a pioli, appoggiata sulla parete della Cappella, stranamente girato verso l’obiettivo. Sembra quasi sia stato colto nel pieno di un lavoro (ma non saprei dire quale) e abbia assunto quella strana posizione per essere fotografato. Fontana Vecchia è sempre stato un luogo importante e prezioso per i baianesi, prima di tutto per la gioiosa gita del mercoledì Santo, quando l’intera comunità vi si recava in “pellegrinaggio”, per poi trascorrere il pomeriggio in compagnia, consumando i residui dolci di Pasqua. Ma la sua importanza storica è dovuta al fatto di essere l’unica fonte con acqua sorgiva di un amplissimo territorio agricolo. I contadini, disseminati nei campi circostanti, si ritrovavano per consumare il pranzo intorno alla fontana e per un breve intervallo di svago per “socializzare”, fare quattro chiacchiere o scambiare informazioni di lavoro e essere informati delle novità paesane. Prima di tornare al lavoro, provvedevano a riportare una riserva d’acqua, riempiendo i capaci vasi di coccio, di colore giallo, detti “mummari” o “mummarielli” (nome che, forse, deriva dalla forma ovoidale, tipo una mammella), che si caricavano in spalla per rientrare nei loro campi. Purtroppo da qualche decennio l’acqua non è più potabile, quasi certamente per il dissennato uso di prodotti chimici, spesso inquinanti, usati dai moderni agricoltori della domenica. I vecchi contadini, invece, erano molto più rispettosi della natura. Per mantenere l’acqua fresca e pulita, si preoccupavano, a turno, di ripulire la sorgente in cima alla collina e il percorso dell’acqua fino a valle. Troppo importante era quella fonte per la vita di tutti. Per qualche mese, nel corso della seconda guerra mondiale, in questa valle e sulle colline circostanti (denominate “‘O Santo”) trovarono rifugio numerose famiglie e gruppi di baianesi per sfuggire ai bombardamenti. Furono giorni in cui la comunità si ritrovò unita più che mai per superare il drammatico momento; solidarietà e disponibilità verso chi ne aveva bisogno furono l’agire quotidiano, non soltanto verso i concittadini, ma anche per i numerosi “forestieri”, in genere napoletani, che erano scappati dalla città per sfuggire ai rischi della guerra.
- Martedì in Albis. Collina di Gesù e Maria.
E’ l’unica cartolina che non ritrae paesaggi ma soltanto un folto gruppo di persone che si stringono per rientrare nella foto. E’ un ricordo, probabilmente degli anni trenta, della popolarissima Festa del martedì in Albis sulla collina di Gesù e Maria. Fino agli anni quaranta era una vera festa, con il suo comitato organizzatore (un mio prozio, Nicola Vecchione, ne è stato il presidente per lunghissimi anni, dall’inizio del novecento), con spettacoli, musica, tammorre e “castagnette”, bancarelle varie, con giocattoli e dolciumi. La foto costituisce indiretta testimonianza del clima di festa. A centro c’è un personaggio di spettacolo all’epoca di grande successo, “’o Pazzariello”, un artista di strada, che si esibiva sempre vestito in modo appariscente ed estroso, accompagnato da una orchestrina di suonatori di tamburi, putipù, scetavajasse e triccheballacche. Intratteneva il pubblico con semplici e divertenti filastrocche, con musica e balli popolari, finalizzati, spesso, a propagandare prodotti di botteghe e/o l’apertura di una nuova (il più famoso Pazzariello della storia è stato Totò nel film L’Oro di Napoli). La presenza di persone elegantemente vestite conferma l’importanza della Festa per la comunità baianese. Si capisce che la festa non era soltanto popolare, ma partecipata anche dalla medio – alta borghesia, che si presentava in giacca, cravatta e cappello per ben “comparire” in un contesto pubblico, nel quale si era “obbligati” non soltanto ad essere presenti, ma anche a misurarsi con gli altri (come in tutte le piccole comunità). La tradizione del martedì in Albis è rimasta nel cuore dei baianesi, anche se lo spirito e il senso della partecipazione cambiò subito dopo la guerra. Dagli anni cinquanta in poi, infatti, è stata soltanto una frequentatissima scampagnata in collina per il dopo Pasqua, con gruppi familiari o di amici sdraiati sotto gli ulivi, con tovaglie multicolori stese sul prato, sulle quali facevano bella mostra panettoni, pizze rustiche, casatielli, salami, pastiere, biscotti e vino a volontà. Scomparso il comitato e gli spettacoli, ancora risuonava qualche rara “tammurriata” grazie a sparute coppie che coltivavano la passione della musica e del ballo. Il ritrovarsi insieme nel verde della collina era comunque una festa, tra abbracci, sorrisi, battute, ricordi e inviti reciproci ad assaggiare le proprie leccornìe (con una certa vanità personale a considerarsi maestri nella loro preparazione). Vista dalla parte dei giovani, la scampagnata aveva tutt’altro significato. Rare erano, fino a quei tempi, le occasioni, per incontrare e corteggiare le ragazze: la collina di Gesù e Maria con centinaia di ulivi, il clima di chiassosa festa e la folla, offriva larghe opportunità di socializzare tra giovani e, temerariamente, perfino di andare oltre.
Riflessione finale.
Una riflessione di costume a margine. In tutto questo scenario che ho cercato di descrivere si nota la quasi totale assenza di donne, giovani e meno giovani. Non è un caso, ma la realtà di quegli anni relegava le donne a un ruolo di sudditanza mortificante, soprattutto se letto alla luce dei tempi attuali. Nelle foto non compaiono donne per un motivo semplice: non erano libere di poter circolare o passeggiare o trattenersi o frequentare un bar. Mia madre, Maria Candela, (1922 – 2005), mi raccontava che era loro vietato di attraversare la piazza o di passare davanti a un gruppo di uomini per non suscitare commenti velenosi e tendenziosi interrogativi: come mai è in strada? Dove deve andare? Chi deve incontrare? Dalle domande maliziose a meritarsi una cattiva fama il passo era breve e il futuro della ragazza compromesso. “Quando desideravamo di distrarci dal nostro lavoro di sarta, uscendo all’aria anche per pochi minuti”, diceva mia madre, “io e la mia amica Graziuccia Piacente, preparavamo un pacco con stoffe da tenere in bella evidenza sotto il braccio. Era l’unico modo per lanciare un rassicurante messaggio ai malpensanti: non siamo in giro per ozioso diletto o per equivoci incontri, ma per motivi di lavoro”. Certamente non siamo più a questi livelli, ma il percorso per l’emancipazione femminile è, ahimè, ancora lungo, disseminato di trappole, e chissà quando sarà completato.