Poco più che trentenne, Stefano Sgambati é docente alla City University of London nel Dipartimento di Economia politica, coniugando la docenza e la proficua collaborazione con riviste specializzate– a diffusione internazionale- sulle tematiche connesse con le dinamiche bancarie e gli assetti del capitalismo nella società del mercato globalizzato. Di particolare interesse tra i saggi di recente pubblicazione sulla Rewiew of internazionale political economy– a cui sovraintende il Comitato scientifico formato da autorevoli esperti e rappresentanti della koinè universitaria mondiale- spicca lo studio che Sgambati dedica alle funzioni della cosiddetta “Leva finanziaria”, “The art of leverage”, fulcro dell’operatività del sistema bancario.
Del saggio si pubblica una breve e lineare sinossi con traduzione in lingua italiana– ormai Stefano Sgambati è anche un buon anglofono di scrittura e lingua. E’ un contributo per la conoscenza dell’attuale realtà economica e finanziaria nel contesto internazionale; contributo di riflessione che travalica l’artefatta “confusione” esistente nel circuito dell’informazione radio-televisiva e cartacea “gridata” e spesso strumentalizzata per obiettivi di “parte” da cui il comune cittadino viene spesso disorientato più che essere messo in condizione di comprendere quello che accade. Una lettura degna di attenzione e interesse.
The art of leverage – Stefano Sgambati
L’articolo prende in esame un aspetto fondamentale della prassi bancaria che resta ad oggi poco compreso: il leverage o ‘leva finanziaria’. Per leverage s’intende la capacità di incrementare la propria esposizione debitoria sulla base di una certa quantità di capitale. Si fa ‘leva’ ogni qualvolta si compie un investimento, in parte con capitale proprio, in parte con moneta presa in prestito.
Sebbene vengano inquadrati come ‘creditori’ (in quanto providers di liquidità e quindi facilitatori della leva finanziaria altrui), gli Istituti bancari sono maestri nell’arte del leverage. Laddove imprese, famiglie e governi finanziano i propri asset, e quindi la propria spesa, con un misto bilanciato di capitale proprio e/o azionario e denaro preso in prestito[1] (con coefficienti di leva finanziaria bassi, che non superano il valore di 1, ovvero 50 per cento debito e 50 per cento capitale proprio o azionario), le banche riescono ad espandere i propri bilanci su una base di capitale alquanto irrisoria, raggiungendo coefficienti di leva finanziaria superiori a 15 (senza prendere ign considerazione attività finanziarie fuori bilancio del sistema bancario ombra, o shadow banking).
L’articolo offre uno studio di come le banche si siano arricchite negli ultimi decenni, avendo escogitato nuove tecniche di ingegneria finanziaria che passano dalla ‘cartolarizzazione’ (securitisation) del credito al consumo e dei mutui alla ‘collateralizzazione’ dei debiti sovrani attraverso operazioni ‘pronti contro termine’ (PCT, meglio noti come repurchase agreements o repos). Grazie a queste innovazioni finanziarie, i grandi conglomerati bancari sono stati in grado di espandere i propri bilanci e di riconciliare la domanda per crediti al consumo con gli investimenti sul mercato dei capitali, ponendo i debiti dei consumatori (mutui e prestiti alle famiglie) e i debiti sovrani a garanzia della liquidità dei mercati finanziari.
Debiti pubblici e privati sono diventati la materia prima di un’industria finanziaria che si nasconde dietro l’immagine neutra e sfocata dei mercati finanziari. Questi ultimi, spesso invocati a mo’ di spettro (del capitalismo), costituiscono oggi l’infrastruttura globale per la produzione e compravendita di debiti: un enorme tavolo di gioco le cui regole non scritte non sono definite da criteri astratti di domanda e offerta, ma sono dettate dal sistema bancario avente l’epicentro in Wall Street.
Il sistema bancario globale non si occupa semplicemente di intermediazione, ma ha un chiaro mandato di market-making. Le principali banche globali fungono da dealer, sempre pronte e negoziare e rinegoziare debiti altrui per conto terzi e, in maniera crescente, per conto proprio (proprietary trading). Il sistema ha tenuto banco a partire dagli anni ottanta, generando enormi profitti, plusvalenze e opportunità per speculatori, multinazionali e, ça va sans dire, banche. Al contempo, il numero di crisi finanziarie si è moltiplicato: dalla crisi del debito latino-americana degli anni ottanta alle crisi finanziarie degli anni novanta che hanno colpito le Tigri del Sud-Est Asiatico, senza dimenticare bancarotte nazionali, bolle finanziarie e susseguenti crash.
Le banche contemporanee sono dealers, commercianti di debiti altrui. Questo è chiaro. Ciò che spesso sfugge è che, a differenza di mazzieri o cartai ign altri giochi d’azzardo, le banche danno le carte e al contempo partecipano al gioco. Non solo: le banche producono le carte stesse che vengono poi servite sul mercato monetario (vedi “cartolarizzazione”). E dunque, piuttosto che presentare una visione funzionalista ed economicista delle banche in quanto intermediari finanziari per conto terzi, l’articolo mette in risalto la dimensione politica e storica del fenomeno bancario contemporaneo in quanto prassi di arricchimento per conto proprio. A tal fine, l’articolo offre degli strumenti euristici per comprendere il rapporto banche-mercati e teorizzare come questo rapporto generi letteralmente denaro. L’idea di fondo è che nell’era della cosiddetta “disintermediazione finanziaria” e dell’ascesa dei mercati finanziari globali, le banche abbiano acquisito un ruolo ancor più centrale nei processi di creazione del denaro ed abbiano accresciuto la propria capacità di fare i soldi facendo leva sui mercati finanziari e diventando al contempo più potenti e, paradossalmente, più indebitate.
Nel caso dei governi, la spesa pubblica viene finanziata in parte dal gettito fiscale, in parte dall’emissione di titoli di stato. Ad esempio, nel 2018 la spesa pubblica federale del governo USA è stata di 4,110 miliardi di dollari. Le entrate fiscali sono state di 3,330 miliardi dollari. Il resto della spesa (circa un quinto) è stato finanziato attraverso un aumento del debito federale pari a 779 miliardi di dollari.