di Antonio Vecchione
Per la prima volta, dopo decenni, il Carnevale baianese è stato cancellato. Svanita nel nulla la tradizione con radici antiche, la “zeza”, i “mesi”, il “laccio d’amore”, eredità del mondo contadino di inizio secolo scorso, poi rinnovata e vivificata dalla Pro Loco negli anni 80 con la costruzione e sfilata di carri. Personalmente registro questa brutta pagina come un segnale che le persone sensibili devono saper cogliere per evitare questa disattenzione collettiva.
Lavorare per il bene comune, promuovere valori condivisi, rafforzare la nostra identità storica e culturale, instaurare fiducia reciproca fra cittadini e istituzioni, impegnarsi per elevare i livelli di serena convivenza, costituiscono i fondamenti della civiltà per ogni comunità. Le associazioni che vi operano hanno funzione importantissima per favorire questi principi e contribuiscono alla crescita culturale e civile. Le amministrazioni costituiscono la base solida e creano le condizioni per incentivare questi principi. Questo è lo scenario, nel quale è auspicabile che ciascuno faccia la sua parte, compreso i cittadini responsabili. Sono sempre stato convinto che chi vuole bene alla comunità, guarda avanti, al futuro, senza soffermarsi più di tanto su eventuali incomprensioni.
Pasqua è vicina e abbiamo altre tradizioni da rispettare, come la spettacolare “Passione di Cristo”, ideata qualche anno fa per la Pasqua e portata avanti affrontando con successo le impegnative difficoltà organizzative. Mi sento di lanciare un invito e un incoraggiamento alle associazioni, in particolare alla Pro Loco, da sempre impegnata protagonista di questa manifestazione: non facciamo mancare alla comunità baianese anche questa straordinaria manifestazione, uniamo gli sforzi, mettiamoci insieme, chiamiamo a raccolta tutte le persone di buona volontà.
Speriamo in tal modo di voltare pagina per iniziare un ciclo positivo di rapporti e collaborazioni.
Per rinfrescare la memoria di quella che era la nostra festività pasquale, riporto, sperando di fare cosa gradita, le pagine della pubblicazione “Baiano”, di Bocciero – Vecchione.
La Festa di Pasqua
Con l’arrivo della primavera e del periodo pasquale o Catafalco si trasformava ed offriva uno spettacolo veramente incomparabile.
Intanto, ci sembra opportuno riferire che la “trista” Quaresima era raffigurata in un fantoccio femminile assolutamente privo di ogni sia pur labile attrattiva del “gentil sesso”, appeso a funicelle tese per le strade del paese, di traverso ad esse, tra due finestre o balconi posti dirimpetto: una vecchia segaligna, cenciosa, sporca, brutta e rugosa (Quaravèsema secca secca) a cavallo d’ una scopa di saggina, con un fazzolettone frusto e stinto sui capelli grigio spento e spelacchiati, uno scialletto risicato e liso sulle spalle e con una gonnella sotto cui pendevano, legate ad un filo di spago, una “scella “ di baccalà, una minuscola bottiglietta di olio, delle cime di rapa ed, infine, una grossa patata rinsecchita, con infitte rade penne di gallina.
Il tubero e le penne erano una sorta di calendario per contare i giorni che mancavano alla Pasqua; più precisamente le penne erano quante le settimane mancanti al compimento del tempo penitenziale e venivano eliminate, una per volta, al trascorrere di ciascuna di esse.
La quaresima, nell’immaginario del popolino, costituiva l’archetipo della bruttezza (riferendosi al fantoccio prima descritto), la rappresentazione dei periodi di miseria e di povertà; sentirsi apostrofare con un “me pare quaravesima senza patana”, costituiva, per una donna, il massimo dell’offesa e dell’umiliazione.
Nei giorni immediatamente precedenti la Pasqua, i Vesuni si animavano in maniera insolita: nell’aria galleggiava un gradevole profumo di dolci e di pizze rustiche (e casatielle, e pagnuttune, e ppizze chiene, e tortene ca nzogna e cu ll’ove, e mascuttine, e pastiere e maccarune, taralle, tarallucce, ecc.).
Nei cortili le donne si affollavano davanti ai forni comuni in attesa del loro turno per cuocervi le proprie ghiottonerie ed anche per scambiarsene, non senza il segreto scopo di dimostrare di fatto, “sul campo” la propria superiore capacità nel confronto con le altre.
Ciò che abbiamo appena rammentato potrebbe far pensare ad uno stato di abbondanza generalizzata, conseguenza di una rimarchevole ricchezza equamente distribuita: niente di più falso l
Al di là di mille considerazioni, tutte validissime ed inoppugnabili, era, comunque, più che altro uno sfogo, sommesso, timido ma sempre sfogo anzi vero e proprio atto di pararibellione istintiva ad un mortificante stato di cose che sembrava solidamente istituzionalizzato e non dovesse avere mai fine.
I dolci e i rustici citati erano estremamente semplici, sobri, fatti, in quantità molto contenute, con ingredienti elementari, poveri.
Tuttavia erano una “festa”: perché iniziava la primavera, la campagna si tingeva di un verde delicato, si delineava il nuovo raccolto, la temperatura si faceva più mite e le giornate più lunghe e luminose e perché caratterizzavano una ricorrenza attesa, giorno dopo giorno, per un intero anno e tenuta a mente per tutto quello a venire.
Spesso le famiglie più semplici e modeste producevano quelle buone, umili cose soprattutto per farne donativo a quelle ricche, cui erano o si ritenevano obbligate. Queste ultime dimostravano, nel ricevere questi doni, il loro status di famiglia “potente e rispettata” ed inoltre soddisfacevano anche le loro voglie d’inconsueta ed eccentrica “rusticanità” (se ci è consentita l’espressione).
Talvolta questi doni venivano fatti consegnare, per loro conto, direttamente ad altre persone o amici; così si sgravavano del fastidio connesso alle “liberalità” che ritenevano –per decoro di “casta” e risaltante beneficenza- di dover fare.
Ne ricevevano per sé stesse un desiderato, rallegrante segno della festa che, in tal modo, veniva loro solo come grazioso “obolo” dal “signore” che servivano o al quale facevano riferimento.
L’Ave Maria Dolente
Credete ai vostri completamente stregati autori: merita un cenno particolare per cos’era e per com’era ! Certamente il lettore d’oggigiorno –se ne avremo qualcuno- ci accuserà d’essere “laudatores temporis acti”, di rimpiangere assurdamente, subdolamente ed irrazionalmente la nostra giovinezza, di essere di quei caparbi, pretenziosi per i quali “… non esiste più la mezza stagione …”.
Ma noi vogliamo correre lo stesso ed a cuor leggero questo pericolo.
Intanto non ci facciamo difficoltà di affermare che il tempo pasquale di una volta –sì, anche quello meteorologico- era ben diverso da com’è oggi che ogni giorno è uguale al precedente e ci dà l’impronta netta di quello a venire.
Forse, inconsapevolmente, siamo noi stessi a creare la, nondimeno inaccettabile, differenza ma sta di fatto che una volta vi ci si sentiva, in esso, che la primavera era imminente, la natura si risvegliava, gli animi si aprivano alla speranza e all’ottimismo; si facevano delle meravigliose riabilitanti gite in campagna che cancellavano del tutto il ricordo ingessante, rugginoso dell’inverno, pur recente e che, quand’anche a tratti si fosse, nella realtà, fatto ancora sentire, sarebbe stato comunque ritenuto ad ogni effetto oramai decisamente alle spalle.
Considerazione … amarognola, frutto della nostra tetraggine di … persone non più giovani ?
Può darsi, ma … chi sa !
Comunque, non sembri strano che in quel periodo, -che si può definire, per certi inspiegabili aspetti, magico- proprio le stesse donne delle appena rammentate scapigliatezze (?) carnascialesche, divenivano protagoniste di un fatto di opposto tenore, eccezionale, che coinvolgeva, estatico, l’intero paese in un’atmosfera maliosa ed incantata, mistica e commovente: il canto dell’Ave Maria Dolente (“Matre Mmaria ro gioverì Santo” ossia “Madre Maria il Giovedì Santo).
Così veniva denominato una sorta di “Stabat Mater” contadino che arieggiava quello di fra’ Jacopone da Todi (senza, però, la violenza, l’astio del monaco umbro) o, meglio, una “lamentatio” straziante di medievali “servi della gleba”.
Il canto veniva eseguito, “a cappella”, verso l’ora del tramonto, quando non è più giorno ma nemmeno la tenebra s’è impossessata già del mondo, dalle donne che vi abbiamo indicato raccolte sul lastrico solare (ncopp all’asteche) di una casa (generalmente quella di Furtunatella a tuppella, all’inizio di via Croce, o quella di Maria e Mena, nel cuore dei Vesuni) casa appositamente scelta perché, per la sua posizione (nonostante non fosse diversa da quasi tutte le altre: terraneo e primo piano) consentiva alle voci di espandersi con maggiore facilità e meglio risuonare nell’atmosfera vespertina.
Era un lamento crudele ma non sconfortato; dolce come la speranza della feconda primavera quando ancora non è del tutto cancellato il ricordo vivo dello sterile gelo invernale; una melodia struggente che veniva seguita, da coloro che potevano coglierla, con partecipazione, emozione ed in perfetto silenzio: la gente si fermava ed era come se la vita stessa si consentisse al momento una pausa.
Molto spesso, però, le cantatrici si riunivano, quasi come su un ideale proscenio, alle falde della collina di Gesù e Maria, la cui maggiore altitudine, fungeva da naturale riflettore delle voci verso la piana e permetteva, così, alla melodia di veleggiare intensa e libera al di sopra delle case dell’intero paese: allora il “pathos” raggiungeva il massimo della tensione e la cosa diveniva semplicemente superba, paradisiaca.
Ci piacerebbe fare ascoltare la melodia di quel canto ma non ci è, almeno per il momento, possibile.
Possiamo, però, trascrivere il testo, ingenuo, rozzo, approssimativo ma denso di genuina poesia e pietà (la lezione è quella di Maria Carmina Napolitano, detta Melina, maritata Genovese e di sua sorella Mariantonia, in Tridente) eccolo:
Matre Mmaria ro gioverì santo
Jeve chiagnenno pe tutto il mondo
Ncontrava nu giureo vestito bianco
Matre Mmaria pecchè vaie chiagnenno
Vaco chiagnenno che nc’ aggio raggione
Aggiu perzo lu mie caro figliuolo
Tu l’hai perzo e io l’aggio truvato
Vicino a na culonna sta nchiuvato
Sta nchiuvato cu tremilia chiuove
E tremilia rose spampanate
Parte Maria e va a Gierusalemme
Tutte li pporte le truvave nzerrate
Maria mette e recchie pe lle senghetelle
Senteva tanta botte de martelle
Metteva ll’uocchie pe cancellate
Senteva tante botte e scurriate
Figlio si mme putisse raperì
‘Na goccia e latte te vurria ra
Figlio, rimme pe qua porte aggia trasì
Mamma nun te pozzo fa trasì
Pecché e chiuove re giureie me fanno male
Figlio, falle pe chellu latte che t’aggiu rate
Rimme pe quala strada me n’aggia jre
Vattenne pe chella strada re ferrare
Rille che fanne e chiuove chiù piccule e cchiù suttile
Che anna passà sti ccarne mie gentile
Maria arrivava abbocca a ddè ferrare
Facite e chiuove cchiù piccule e suttile
Che e carne di mio figlio so gentile
Risponne nu giureo a alda voce
Tre onze e fierre agnugne e nun mancà
Maria sentenne sta nuvella voce
Cariva nterra e era meza morta
Curre Giuvanni cu le virginelle
Curre a ppiglià Maria ca è morta nterra
Curre Giuvanni cu na bella forza
Curre a piglià Maria ch’ è meza morta
Scurava primma o cielo e po la terra
O figlio de Maria mo se sfracella
Po scurava l’aria e po lu sole
O figlio de Maria se ncurona
Scura ll’aria e po lu biss
Lu figlio re Maria sta ncrocefisso