di Antonio Vecchione
Le “messe e notte” affondano le radici nella storia di Baiano e, come si capisce dal modo di definirle, erano celebrate prima dell’alba. Alle due e mezza di notte, mi raccontava mia nonna, il quartiere popolare dei “vesuni” si animava per un affollato corteo di devoti, donne e uomini, che si dirigeva verso la Chiesa di S. Stefano per inginocchiarsi al suo Altare. Impensabile una tale tradizione per i ritmi di vita dell’era moderna, ma quei tempi erano giusti per i costumi di vita dell’epoca. La giornata di lavoro iniziava prima dell’alba, non oltre le cinque, e contadini, boscaioli, la maggioranza dei cittadini baianesi, dovevano raggiungere in tempo il posto di lavoro, rigorosamente a piedi. Erano un sacrificio enorme per tutti, una sofferta rinuncia a un bene prezioso, il tempo riservato al riposo, ma fatta con la convinzione di chi è animato da ingenuo spirito cristiano e, soprattutto, da rispetto e devozione per il Santo Protettore. Erano sempre affollate, ma il 13 e il 14, S. Lucia e S. Aniello, si registrava il massimo delle presenze.
Non dimentichiamo che nella nostra società contadina, alquanto primitiva e perciò stesso altamente ricettiva delle trascendenze, in particolare di quelle religiose, accolte nell’immaginario collettivo quasi come una componente magica che, nelle vicende umane, impressiona, esalta e conquista le anime candide. Ne discendeva la gioia di una orgogliosa, naturalistica sottomissione al soprannaturale. In questa visione popolare Santa Lucia,” ‘a vista ‘e ll’uocchie “, e S. Aniello, protettore delle donne partorienti, erano particolarmente venerati e temuti. Tutti gli uomini sposati, già padri o, soprattutto, in ansiosa attesa d’esserlo, non potevano mancare alla Messa perché: “Sant’Aniello nun s’addà piglià collera; è vendettuso e fa nascere ‘e criature c ’o scartiello! Il 14 dunque la Chiesa era stracolma. Un vero spettacolo! Uomini rudi, con la barba incolta, le mani callose e l’espressione alquanto grossolana, stavano lì compunti, confusi e quasi ancora intimiditi al pensiero del maleficio che ritenevano di avere appena scongiurato con la partecipazione a quella sacra funzione: un tenero miscuglio di sacralità e di infantile superstizione che non è giusto giudicare con severità.
Il buon parroco si sforzava di cancellare questa credenza, stigmatizzandola con un immancabile fervorino dall’altare, che però risultava del tutto inutile.
Uno scenario, quello raccontato, oggi scomparso. Una vera rivoluzione ha stravolto dal profondo i costumi di vita della nostra società e quei sentimenti, quel calore della solidarietà umana che si respirava e ti gonfiava il cuore è archiviato. Ma per fortuna la fiammella non è spenta e aver saputo conservare questa tradizione, questo stringersi intorno ai valori cristiani di Fede e Devozione ai piedi dell’altare del nostro Santo Protettore, è sempre un merito della nostra comunità. Si percepisce un orgoglioso spirito di partecipazione e una sensibilità ai valori collettivi che lascia ben sperare per il futuro.