E’ l’alba di Natale 2016. Il Bosco Arciano è ancora in penombra ma è già gioiosamente animato. Una folta schiera di persone, soprattutto giovani, ansiosa di partecipare, ha raggiunto con ogni mezzo l’angolo del bosco convenuto, “a lurdicara”. Il tempo di prender fiato e trovano subito posto negli spazi intorno all’albero di castagno contrassegnato da due lettere rosse in bella evidenza: SS, Santo Stefano, il nostro Maio di S. Stefano. Mille occhi lo guardano, lo scrutano, lo misurano, lo giudicano, lo toccano, lo circondano, si affezionano e lo sentono già a pieno titolo il nostro simbolo di fede: si percepisce con chiarezza il benefico flusso d’amore che da questi convinti “volontari” si muove verso il maio e lo avvolge in un forte abbraccio. Uno spettacolo straordinario di popolo e di sincera passione. Entusiasmo, giovinezza, allegria, voglia di partecipazione, un clima di festa solidale, saluti, auguri, una chiassosa confusione, più incantata che attenta, strette di mano, sorrisi a raffica per il piacere di ritrovarsi insieme lassù, video, foto, selfie, rullo di tamburi, comandi che si susseguono, si intrecciano, si confondono, si contrastano, che spesso restano sospesi in aria e, pur tuttavia, la “missione” di tagliare il Maio, per consegnarlo con orgoglio al popolo che aspetta a valle, è portata a termine: un miracolo, un prodigio della volontà di riuscire, una sfida vinta, quella di rendere attuale un rito immutato da secoli, conservandone lo schema fondamentale e il fascino. Chi conosce la storia e va col pensiero indietro nel tempo di qualche decennio, sa che questo scenario è inconsueto. Il cerimoniale del mattino, che oggi vede questa massiccia partecipazione, era caratterizzato dall’impegno di un gruppo ristretto di persone, che riversavano nella festa prima di tutto la loro Fede, ma anche il loro “mestiere”. La festa si animava e diventava di popolo il pomeriggio, per la corale partecipazione al fucarone di S. Stefano. La comunità intera si sentiva coinvolta e invadeva le strade: musica, cortei, spari festosi, canti, una voglia di esserci e gioire insieme agli altri, con semplicità, con fede e passione. Negli anni ’40 e ’50, periodo di cui abbiamo ancora memoria, e fino agli inizi degli anni sessanta, la festa traeva ancora linfa dal più profondo del tessuto sociale, quello della gente comune, dei boscaioli, dei contadini, degli artigiani, della gente umile. Essi celebravano un rituale che era lo stesso dei loro padri e nonni e consideravano la Festa un fatto “naturale”, con la sua scansione temporale, anno dopo anno, come l’alternarsi delle stagioni, come i lavori nei campi, come la vita che scorreva, immutata, senza dar loro la possibilità di sottrarsi al destino di subalternità, come la protezione di S. Stefano, sulla quale potevano sempre contare (e per questo meritava onori e devozione). La Festa del Maio che ci raccontano è l’espressione del loro ingenuo senso poetico – mistico – magico e trovava linfa vitale in un mondo completamente intriso di cultura contadina. Quel mondo è scomparso, spazzato via da una profonda rivoluzione sociale, che, trasformando radicalmente i costumi di vita, ha anche influenzato la Festa del Maio, che di quella cultura era (e dovrebbe essere ancora ) espressione. Da qui la necessità di modificarne lo spirito di partecipazione, adeguandolo a linguaggi, sensibilità e costumi di vita moderni, senza stravolgerne il rito. Un percorso cominciato più di venti anni fa ed oggi portato a compimento e che il popolo di Baiano può salutare con grande soddisfazione.
E’ opportuno ricordare, per marcare le differenze, che una volta erano i mannesi, boscaioli di professione, che si occupavano di queste operazioni nel bosco. Essi si recavano ad Arciano con la sicurezza di chi sa dove andare e che cosa fare. Svolgevano il loro compito senza clamore, non avendo bisogno di sprecare parole o di agitarsi troppo: ciascuno sapeva esattamente cosa fare e come farlo. Il bosco era casa loro ed il mestiere una pratica quotidiana. All’interno del gruppo avevano grande importanza le persone più anziane, a cui si riconosceva tacitamente maggiore esperienza, capacità ed autorevolezza. Il rispetto della natura era l’altra costante di questi personaggi. Le operazioni di taglio non dovevano mai arrecare danni al bosco o alle strade o alle barriere naturali per frenare l’acqua. E qui tocchiamo l’altro grande valore della festa e della storia baianese: l’importanza del bosco e della sua conservazione.
Arciano, dunque, oltre a essere il regno dei mannesi, lavoratori professionisti della montagna, era la casa di tutti i baianesi, il luogo dell’anima, una fonte di ricchezza per tutta la comunità ed era sacro e rispettato.
Mia nonna, a dimostrazione di questa realtà, ripeteva un proverbio, esempio di saggezza popolare baianese, straordinario per i valori che esprime, generosità, rassegnazione, spirito di sacrificio, amore per il prossimo, non disgiunti da una profonda e amara ironia sulle diseguaglianze sociali: «Maronna mia, fa sta bbuono e ricchi, tanto nuie tenimma Arciano!» (un’invocazione alla Madonna per invitarla a proteggere e assistere i ricchi; i poveri hanno meno bisogno, poiché hanno il bosco di Arciano come risorsa per vivere!). Uno dei tanti emigranti baianesi negli USA, Gennaro Virtuoso, Innaro ’o crocchiolo, per esplicitare con orgoglio le sue origini, pensò con naturalezza al suo luogo simbolo, esprimendosi con una immagine pittoresca, ma eloquente: «Si vai Arciano, ce stanno ancora ’e pparate mie!». Una straordinaria e sintetica immagine per evocare le condizioni di vita di gran parte dei baianesi. Dal più profondo della sua anima, uscì spontaneamente quella che considerava come testimonianza inequivocabile del suo essere baianese: la conoscenza e la frequenza del bosco Arciano e le infinite “impronte” dei suoi piedi lasciate in ogni angolo. Profondamente convinti di questo valore, la riscoperta del bosco, ormai dimenticato e sconosciuto, soprattutto alle giovani generazioni, è stato l’obiettivo principale degli anni novanta, per rilanciare la Festa del Majo e recuperare il senso dell’identità baianese.
Ma occorre ricordare ed evidenziare che il bosco Arciano è soltanto uno dei due pilastri che danno significato alla Festa e hanno assicurato la sua continuità nel tempo. L’altro grande valore è la devozione per S. Stefano e la sicurezza che deriva dalla Sua protezione. S. Stefano e Arciano: l’identità baianese è tutta qui, come i nostri modi di sentire. Secoli di storia baianese sono stati influenzati da questi due sacri valori. Oggi, alla luce di quanto raccontato, si può affermare che il bosco Arciano è stato rilanciato e valorizzato. Ma possiamo dire lo stesso di S. Stefano? Può esistere la Festa del maio senza il culto per S. Stefano? E’ una domanda che, negli ultimi tempi, molti cominciano a porsi. Personalmente ritengo che la risposta sia negativa, decisamente negativa. La festa senza il suo humus di fede diventerebbe una qualsiasi “sagra”, una delle tante, priva del radicamento che la distingue e la rende unica. Qualche dubbio è legittimo, considerando che l’attaccamento al nostro Santo Protettore diventa sempre più debole. Ciascuno di noi deve farsi un esame di coscienza: questa devozione per S. Stefano, motivo fondante del rito, è sentita o soltanto una facciata per nascondere quella voglia di partecipare, sparare, ballare, cantare? Io spero di poter sempre affermare: S. Stefano è parte integrante dell’essere baianese. Una riflessione è d’obbligo, allargata all’intera comunità. Ed è la mia proposta conclusiva, che, spero, sia bene accolta da tutti i baianesi di buona volontà.
Antonio Vecchione