Un’attenta rivisitazione delle strutture delle mafie è stata al centro dell’intervento sviluppato dall’avvocato Giuseppe Macario, del Foro di Avellino, nel Forum dedicato alla Giornata della legalità, promosso e organizzato dal Circolo L’Incontro nell’Auditorium del plesso di Scuola media del Giovanni XXIII, con rilievo particolare per l’introduzione nella legislazione penale del processo accusatorio, rimuovendo il modello del processo inquisitorio, segnando il sostanziale cambio di passo nel concreto e incisivo contrasto alle mafie e ai loro potentati economico-finanziari attraverso le innovative metodologie d’indagine, praticate e attuate anche in dimensione internazionale da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sulla scia di altre figure simboliche di scrupolosi inquirenti, tra cui Rocco Chinnici. Altro passaggio considerevole verte sul rapporto tra Costituzione e lo Stato di diritto plasmato dall’ordinamento repubblicano e democratico. Dell’intervento dell’avvocato Giuseppe Macario si pubblica lo schema trattato, per il valore di testimonianza che esprime. E, intanto, nell’agenda delle iniziative del sodalizio di via Luigi Napolitano spicca nel prossimo autunno, l’Oratorio civile dedicato a Paolo Borsellino. Protagoniste e protagonisti saranno giovani delle comunità del territorio.
Ricordo bene la stagione delle stragi di mafia.
Ricordi impressi nella memoria collettiva, ma che, per un allora studente universitario di Giurisprudenza, assumono una caratteristica ed un significato peculiari.
In quegli anni, infatti, la grande novità giuridica era stata l’introduzione del Codice di procedura penale che, con una rivoluzione ritenuta copernicana, avrebbe dovuto traghettare l’Italia da un processo penale arcaico, nato in piena dittatura fascista, e certamente inquisitorio, ad un modello di processo accusatorio, in cui assumevano improvvisamente importanza termini quali: contraddittorio, presunzione di innocenza, disclosure.
Un mondo nuovo per i processuali penalisti italiani, ma, a maggior ragione, per gli studenti universitari che avevano il cuore, la mente, pieni di processi all’americana e, magari, di Perry Mason. In quella riforma, arrivata improvvisamente dopo circa cinquant’anni di tentativi, un ruolo non affatto secondario aveva svolto, nella realtà, il maxi processo voluto dal Pool di Palermo e da Giovanni Falcone, in particolare. All’improvviso, in quei 57 giorni, quelle parole, quei principi, assunsero un significato amaro. Sembrò, all’improvviso, che termini come diritto dell’imputato, tutela del contraddittorio, presunzione di innocenza, fossero divenuti contrari a quelli di ligbertà, giustizia e legalità. Semmai si fosse votato per l’applicazione della legge del taglione per i reati mafia il risultato all’epoca sarebbe stato bulgaro.
Immaginate per un attimo come una parola di cui conoscete benissimo il significato, perché per voi è di uso comune, venga improvvisamente utilizzata del resto del mondo per dire esattamente il contrario. Perché in quelle piazze, che si riempirono dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i termini giustizia, libertà, legalità avevano tutt’altro significato rispetto a termini che, fin dagli albori dell’ Ottocento, erano i pilastri dello Stato di diritto. Definiti in tutti i loro aspetti dai più grandi pensatori illuministi e da tutto il pensiero filosofico giuridico sino alla metà del ‘900. Se lo Stato monarchico trovava il suo fondamento nella natura divina del re; lo Stato di diritto, teorizzato in contrasto a quello assolutistico, aveva le sue fondamenta nel principio di legalità. La legge diviene la stella polare: la giustizia è mera applicazione della legge secondo il brocardo dura Lex, sed Lex ; la libertà è definita dalla legge perché la legge ne segna i confini anche contro igl potere esecutivo.
Ma non era certo questa la legalità che in quelle piazze si richiedeva a gran voce.
Quella legalità era diversa. Essa era un’eco di quella legalità che spesso era stata richiamata dai due magistrati uccisi. Una legalità che non è mero rispetto della legge, ma si erge ferma e compatta in contrapposizione attiva all’illegalità, ossia al sistema di vivere mafioso.
Quando da un punto di vista giuridico era avvenuto questo passaggio? E soprattutto come si era modificato il rapporto tra legge e cittadino?
In realtà, la critica al sistema illuministico parte dagli inizi del ‘900, ma vorrei indicare due fatti significativi: il processo di Norimberga e la promulgazione della Costituzione italiana.
Il processo di Norimberga sotto più aspetti rappresenta la crisi del tradizionale concetto di legalità. Se ciò che è legale, è giusto, è anche lecito; e se il cittadino ha l’obbligo di rispettare la legge, perché dura Lex, sed Lex, allora il processo dgi Norimberga, non ha alcun fondamento giuridico: tutti i nazisti agivano in base alla legge.
Ecco, allora con Norimberga si afferma l’esistenza di principi indipendentemente dalla legge, anzi, per meglio dire, la sussistenza di principi che sono al di sopra della legge. Al brocardo della inflessibilea dura Lex, sed Lex”, si oppone quello che recita summum ius, maxima iniuria. Anche la legge quindi può essere ingiusta e, come tale, non va applicata.
L’altro fatto che voglio richiamare è l’introduzione della Costituzione italiana. Per più versi riconosciuta come una delle Costituzioni più belle al mondo.
Le Costituzioni ottocentesche nascevano dalla necessità della borghesia liberale di tutelare le sue posizioni economiche e sociali contro i retaggi della cultura nobiliare. La Costituzione italiana nasce dall’incredibile unione delle esperienze liberali, cattoliche e socialiste, che trovarono il loro punto di incontro nel senso di ribellione all’esperienza nazifascista.
Uno dei punti fondamentali di quella Costituzione è rappresentato dal principio di uguaglianza che trova una innovativa e rivoluzionaria formulazione nel secondo comma dell’Art.3, che afferma. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando in fatto le libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.”
Non solo si riconoscono quei principi sopra giuridici come l’uguaglianza che con Norimberga erano stati riconosciuti come direttamente tutelabili, ma addirittura si impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di fatto secondo un principio di uguaglianza che non è più mera formalità, ma deve trovare applicazione concreta nella vita delle persone.
Ecco che allora anche i nostri principi di legalità, giustizia e libertà vengono travolti da questa nuova incredibile visione. E più di tutti a risentirne, è proprio il principio di legalità che non si esaurisce più nel mero rispetto della legge. Legalità diviene adoperarsi per la legalità, rimuovere gli ostacoli alla legalità ovvero combattere contro l’illegalità.
Ma come? Ecco con le parole di Borsellino, “facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che impongono sacrifici: rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia, troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito.”
Ecco, quel Viaggio personale e giuridico partito dagli insegnamenti dello Stato di diritto, trova la sua convergenza con quel grido di legalità che si alzò nelle Piazze di Palermo e di tutta Italia. Trent’anni fa.
Per dirla con Falcone, “la gente fa il tifo per noi”. Dove quel tifo non è solo appoggio morale, ma anche la consapevolezza che con il loro lavoro, questi due grandi uomini dello Stato sono stati capaci di smuovere le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con l’illegalità che costituiscono la vera forza delle associazioni criminali, muovendo il concetto di legalità da una visione di mera sopportazione – io subisco la legge, perché essa mi tutela– a quello di promozione- io promuovo la legalità, perché é moralmente giusto.
Giuseppe Macario