di Valentina Guerriero
È ancora nelle sale l’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire. Ho perso il suo penultimo lavoro, Tre piani, uscito nel 2021, in pandemia, ma a parte questo, posso dire di aver visto tutti i suoi film.
Nel Sol dell’avvenire, Nanni reitera ogni suo tema, a partire da quello della delusione del partito. Si autocita, come nella scena in cui nuota avanti e indietro richiamando Palombella rossa (film totalmente incentrato sulla delusione politica) e inserisce, come sempre, tutti i suoi problemi personali, come nell’autobiografico Mia madre, in cui mostrava un regista in crisi totalmente assorbito dalla malattia del suo genitore, descrivendo come gli eventi della vita prendano a volte il controllo totale sul resto, fagocitando gli anni e tenendoli fermi.
Nel Sol dell’avvenire Nanni si lamenta della sua produzione (“non posso fare un film ogni 5 anni!” oppure “dovevo fare questo film quand’ero giovane”) e interpreta come al solito se stesso.
Il film si presta a letture su più livelli ed è alquanto complesso per chi non conosce la figura. Ma anche ad uno sguardo distratto, il film risulta comunque coinvolgente, perché lo spettatore sa che Nanni vuole dire qualcosa e non dispone i suoi elementi totalmente a caso. Certo, potremmo chiedere a Nanni di spiegarsi meglio, ma come dice lui stesso “io al pubblico quando faccio i miei film non ci penso“, così per capirlo totalmente, non resta che essere come lui, o conoscerlo molto bene.
Il protagonista, un regista, Giovanni, è impegnato nella realizzazione di un film basato su un episodio del 1956. L’arrivo di un circo ungherese (che prenderà buona parte delle scene del film) si intreccia con gli eventi della concomitante rivoluzione ungherese antisovietica, il PCI dovrà scegliere se appoggiare o non appoggiare, ovvero se assumere una posizione autonoma contro l’Unione Sovietica o difendere il comunismo a spada tratta. Sceglierà la prima, distaccandosi dalla linea guida russa e realizzando la propria autonomia. Siamo nel periodo di Togliatti.
Ma tutto ciò è sempre e solo ciò che accade nella mente di Nanni, nelle pagine della sua sceneggiatura sono eventi di oramai di settant’anni fa a cui continua a pensare, dotati sì di grande spessore ideologico, ma da collocare in un’epoca diversa rispetto a quella in cui sta realizzando il film.
Di nuovo Nanni si autocita, girando per Roma in monopattino (girava per Roma in motorino in Caro diario, dicendo che lo fa ad ogni film). Nanni rispetta le tradizioni (come quella di vedere il film Lola prima dell’uscita di ogni suo film), è in un mondo suo, inattaccabile, che non viene scalfito nemmeno dalle idee delle persone a lui vicine. La sua mente è un muro, fatto di principi, del suo modo di vedere le cose.
Le cose devono essere come lui crede che debbano essere, e non si accorge, invece, che non è così, la realtà non obbedisce alle sue idee. Sua moglie produce un film spazzatura, per il puro gusto di emanciparsi dal marito, sua figlia s’innamora d’un vecchio dell’ambasciata polacca, con cui compone insieme le musiche per il film del padre. Gli attori sfuggono al suo controllo, facendo ciò che non vuole, modificando le battute, innamorandosi sul set e rendendo un film politico un film d’amore.
Come sempre, forte la presenza della musica, delle canzoni italiane poste qua e là nel film, stucchevoli all’inizio e ben messe dopo, ricorrente Battiato, come un marchio di fabbrica, come a segnalare che Nanni Moretti non va mai avanti, non cambia mai.
“Nella vita nessuno cambia mai veramente, quella è una cosa che si vede nei film.”
Ci sarebbe molto da dire, ma la rivoluzione di questo film forse è nel messaggio di speranza finale, inserito proprio quando va tutto male: lasciato dalla moglie, rimasto senza soldi per la produzione (e ostinatamente contrario a Netflix), egli decide di eliminare il finale tragico in cui il protagonista s’impicca e inserirne uno felice.
Perché quando le cose vanno male, non c’è spazio per le fantasticherie di suicidio, nemmeno quando ben si inseriscono tragicamente e poeticamente nel proprio lavoro, che non è più quello giovanile, ma oramai ben collocato in un momento di maturità della propria carriera.
Il titolo, perciò, che apre il film e troneggia nella locandina, è parte integrante del finale e anticipa il momento di risoluzione della storia, un finale sostituito all’ultimo, come fa il regista protagonista Giovanni (cioè lui, Nanni).
Insomma, molta amarezza in un messaggio di speranza, ma che volge al domani, e che vuole descrivere le dinamiche di pensiero umano, delle relazioni, mostrare la combattività, la voglia di fare, il metodo di perseguimento dei propri ideali mentre la vita va avanti giorno dopo giorno. Un’analisi spietata della realtà, pessimistica, ma che vuole intravedere uno spiraglio ed è proprio in questo spiraglio che Nanni riesce a tenere unite persone tanto diverse e ritrovare quell’integrità e unione con l’altro che aveva perduto.
Si potrebbe dire molto altro, ma non lo farò.
Consigliato.
Nel cast, Silvio Orlando e Margherita Buy. Un cameo di Chiara Valerio, matematica laureata all’Università di Napoli .