Qui di seguito la lettera del Vescovo di Avellino Arturo Aiello a medici, infermieri e operatori sanitari che si stanno prodigando oltremodo in questa difficile situazione.
“A voi Medici e Infermieri, operatori sanitari e componenti delle squadre del 118, e a quanti collaborano, notte e giorno, per il servizio sanitario in questo tempo di guerra, rivolgo un pensiero grato, un incoraggiamento, una preghiera e una benedizione. Ieri sera molte auto dei Carabinieri, dei Vigili del Fuoco, della Polizia, dei Vigili Urbani, a fari accesi e a luci lampeggianti hanno cinto d’assedio l’Ospedale “San Giuseppe Moscati” di Avellino al suono dell’Inno di Mameli diffuso ad alto volume. È stato un abbraccio corale, una dolente serenata, per voi e per i malati, un segno di vicinanza e di speranza, da parte delle Forze dell’Ordine, per quanti combattono in questi giorni con il pericolo del contagio eppure non si stancano di prestare servizio ai “feriti”, fedeli alla propria missione. In questi giorni più chiaramente e drammaticamente comprendiamo che la professione è una vocazione, vi nasce dentro come un imperativo, ma viene dall’alto, è a servizio degli uomini e delle donne, ma ha un motivo ispiratore “verticale”, è un segno di responsabilità nei confronti della storia e di Dio.
Il nemico Covid-19 in pochi giorni ha messo in ginocchio le nazioni, fatto collassare i nostri sistemi sanitari, fermato la giostra del paese dei balocchi, fatto crollare le borse, mietuto tante vittime, ma non ha fermato la vostra dedizione e forza d’animo. Bravi! In questa tragedia che ha investito tutti, voi costituite un baluardo di bene, un canto alla vita, un abbraccio di fraternità, i crochi che fioriscono nel freddo dell’inverno bucando anche la neve. Dagli spalti delle nostre case, dei nostri campanili, indici puntati verso il cielo, delle nostre chiese deserte ma spiritualmente affollate di preghiera, noi facciamo il tifo per voi che più da vicino, a nome della collettività, prestate soccorso ai feriti gravi.
La vostra vita è stata stravolta da turni frenetici, da messaggi trasmessi con gli occhi, da un andirivieni che lascia tracce di stanchezza non solo sui volti arrossati dall’elastico della mascherina, ma anche nei cuori impauriti che sono chiamati a dare messaggi di speranza. Non solo sul piano professionale, ma anche su quello personale le vostre vite portano i segni di questa guerra in atto. “Eccellenza, la mia vita è stata stravolta, quando torno a casa la sera, stanco come uno straccio, vorrei baciare i miei bambini, ma so che non posso farlo, non devo…, vorrei abbracciare mia moglie, ma mi sento come un appestato che non ha diritto neppure a un po’ di tenerezza…, da quattro settimane dormiamo separati per motivi prudenziali…, ma io non ho scelto il celibato…, volevo fare il medico, non il monaco, sono un uomo anch’io, non ho la stoffa dell’eroe!” mi diceva uno di voi facendomi affacciare sulla paura che, insieme alla stanchezza, possiate portare a casa anche il contagio. Valerio, vent’anni fa ministrante della mia parrocchia ed oggi medico apprezzato in cardiochirurgia, ieri sera non ha voluto salutarmi per affetto e mi ha detto, oltre il sipario della mascherina “su dieci contagiati, due sono medici o infermieri!”
La guerra, ogni guerra, anche questa, mette a nudo egoismi e grandezze, cuori gretti già morti e cuori generosi che sanno essere “più grandi dell’amore”. So che tanti di voi, tutti voi, mettete a repentaglio la vostra vita ogni giorno diventando icona di una parola di Gesù che afferma” Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Non sono vostri amici i tanti che giungono nei nostri ospedali in crisi respiratoria o positivi dopo l’esame del tampone, ma appartengono alla famiglia umana, sono vostri fratelli e salvandone anche uno solo salvate il mondo intero. Un proverbio africano dice: “chi salva un uomo salva tutto il villaggio” e voi operate, fin dai tempi di Ippocrate, decisi nel difendere la vita, nel villaggio globale che è diventato il mondo.
Siete sacerdoti della vita, siatelo anche quando, per un paziente, i valori precipitano all’improvviso e vi “sfugge di mano” cadendo nella morte. A voi è dato (in quel momento i cappellani, secondo le disposizioni, possono solo stare in preghiera davanti a Gesù Eucarestia!) di porre un gesto di pietà, di chiudere gli occhi al defunto, di recitare una preghiera, di fare con il pollice un segno di croce sulla fronte che va raggelandosi, prima che il cadavere sia lavato e “imbustato”. A voi e a nessun altro è concesso di porre gesti e di dire parole che, in altri frangenti, avrebbero posto sacerdoti e parenti, non abbiate timore di fermarvi un attimo, siete voi in quel momento, qualsiasi sia la fede del defunto, le sentinelle della vita chiamate a celebrare anche l’atto estremo del vivere. So che è difficile trovare parole da dire dinnanzi alla rabbia della sconfitta, ma lo Spirito in voi ve le suggerirà prima di voltare pagina, prima di passare a un altro letto, a un altro paziente, a un’altra storia.
Vi raggiungo tutti e faccio una carezza a ciascuno, senza guanti, perché sentiate vicino il vostro Vescovo, i vostri preti, i tanti che pregano per voi. Vi raggiungo nel vostro inferno che, da qui, da Piazza della Libertà, per il vostro eroico servizio, mi pare già anticipo di paradiso. Forse perché ha sapore di miracolo?”.