A cura di Valentina Guerriero
Solo un vero poeta è capace di sposare la stessa persona due volte. Sposare e poi divorziare e di nuovo sposare. È ciò che ha fatto Luis Sepúlveda con la poetessa Carmen Yáñez.
Entrambi cileni, lui nato a Ovalle, lei a Santiago, erano stati insieme da giovani per poi ritrovarsi in vecchiaia.
Luis Sepulveda ha segnato generazioni, anche quelle più recenti, con la sua “Gabbianella e il Gatto” che fu lettura di tutti i bambini degli anni ’90. Un film di produzione italiana accompagnò l’uscita di questo libro in Italia (1998), che non è stato l’unico di Sepulveda per bambini: ce ne sono infatti molti altri, come Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà, Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico, Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza, etc.
“C’ho fatto l’abitudine. E poi la vera saggezza è sapere quando le cose finiscono. Soprattutto uno scrittore deve sapere quando dire basta. Non ripetersi. Perché scrivere deve essere un gesto libero e non una condanna.”
(In un’intervista su Repubblica del 2017)
A salutarlo sul letto di morte, causata del Covid (è stato contagiato a fine febbraio 2020, per poi spegnersi il 16 Aprile 2020, tutti noi l’abbiamo letto sui titoli dei giornali) è stata quindi sua moglie, Carmen Yanez di cui invece ricordiamo: Cardellini della pioggia, Latitudine dei sogni, Migrazioni, tutti editi da Guanda, storica casa editrice che pubblica da sempre Sepulveda.
Così, anche io cresciuta a pane e gabbianella e il gatto e in un mondo che viveva sulla scia dei sogni infranti del comunismo, canzoni degli Inti Illimani e sostegno ai compagni cileni (la testimonianza più recente di ciò è il bellissimo film-documentario Santiago, di Nanni Moretti, che vi consiglio di andare a vedere), sono ritornata a leggere Luis Sepùlveda, partendo dalla sua opera principale, la prima edita in Italia, “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” (Guanda, 1993) e che attirò su di sé attenzione di pubblico e critica, vincendo fin da subito il premio letterario spagnolo Tigre Juan (1988).
Ciò che si evince nell’opera di debutto di Luis Sepùlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, è lo sforzo che fa nel cercare di calarci in un mondo che non ci appartiene. Nel cuore della foresta amazzonica, il vecchio Antonio José Bolìvar non è né uno shuar puro (gli shuar sono una tribù indigena della foresta amazzonica) né un abitante del freddo villaggio da cui proviene, ai confini con il Perù. Ovviamente non ha niente da spartire con i gringos, i cercatori d’oro, i nordamericani che a volte entrano nella foresta per scopi specifici e materiali. Ma con ottime capacità di adattabilità, Antonio José Bolivar sopravvive fino alla vecchiaia, ovunque egli si trovi.
Quello del Vecchio è un mondo che non ci appartiene, e che abbiamo visto confusamente in qualche film di Indiana Jones o nei romanzi per ragazzi, un mondo lontano e anche difficile da immaginare. Ma anche Antonio José è costretto a compiere sforzi di immaginazione nella lettura dei libri. Il vecchio infatti ama i romanzi d’amore. Scopre in tarda età di saper leggere (anche se non sa scrivere) e trova così il suo passatempo per la vecchiaia. Nonostante ciò, continua a essere tirato in mezzo a beghe che non lo riguardano: esperto conoscitore della foresta, il sindaco del villaggio in cui abita gli chiede di accompagnare alcuni stranieri nella foresta e di ricercare – presentando questo problema già all’apertura del libro – il tigrillo, una feroce specie felina che da qualche tempo, impazzito, sta mietendo vittime e sta discendendo verso il centro abitato.
Perché romanzi d’amore? Gli è difficile immaginare Londra, Parigi, le gondole di Venezia, città che non ha mai visto (deciderà di chiamare la sua canoa gondola, dopo aver capito che per qualche motivo Venezia non è come le altre ed è allagata).
Il vecchio trova intollerabile Cuore di Edmondo de Amicis (si chiede: come si può affibbiare tanta tristezza a un solo uomo? E come dargli torto) e troverà interessante invece Rosario di Florence Barclay.
Semplicemente, nella scelte delle sue letture, Antonio andava per esclusione, scartando cose per lui troppo difficili, come i trattati di matematica, le riviste di cronaca che contenevano solo notizie per lui di scarso interesse e così via eliminava anche altri generi. Antonio José Bolivar non conosce l’amore. Sposato a 13 anni con una donna morta giovane e che non gli dava bambini, sicuramente l’aveva amata come una sorella e una giovane fidanzata. Ma ora, vecchio, Antonio José ha trascorso una vita in tutt’altre cose, dove l’amore al più era un rito, un’offerta che gli faceva il capo del villaggio di shuar in cui per molti anni aveva abitato, e che gli cedeva per qualche sera le sue concubine in segno di riconoscenza. Inoltre gli shuar non baciano.
Quindi l’amore è relativo, l’amore è una convenzione?
Nella foresta, le dinamiche dell’amore e della sopravvivenza obbediscono a tutt’altri tipi di regole. Antonio José Bolìvar, vecchio, non bello, cerca qualcosa che non ha mai conosciuto, se non per brevi frammenti disseminati in un paradiso verde.
“Era amore puro, senza altro fine che l’amore stesso. Senza possesso e senza gelosia.
Nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nel momento dell’abbandono”
Tra curiosità sulla foresta e sulle tradizioni shuar che noi occidentali lettori non capiamo davvero, questo breve romanzo costituito da otto secchi capitoli trascina in una storia appassionante, d’un genere che non avrei mai pensato leggere: avventura.
Mostrando che un bravo scrittore non deve per forza scrivere molto, lunghi tediosi romanzi in cui per stordimento t’affezioni alla trama e al personaggio.
Il vecchio che leggeva romanzi d’amore è una pallottola. Che va a segno.
“Una femmina impazzita di dolore è più pericolosa di venti assassini messi insieme.”
Solo finendo di leggere il libro, si comprende perché nel momento della sua uscita fu definito un inno alla natura, quando vinse il premio Tigre Juan nel 1988. Ma spiegarlo solo come un libro di denuncia, in cui si auspica ad un ritorno a uno stile di vita più autentico, come quello degli shuar, non è altro che un modo di liquidare “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” a qualcosa che in realtà non è, o perlomeno non è solo questo. Per comprendere questo libro bisogna mettere a fuoco molti aspetti, e uno è sicuramente, sì, il grande rispetto per la natura di chi nella natura si è sempre amalgamato (gli shuar, e Antonio José) permettendo che sopravvivessero entrambe: specie umana e natura. Ma non bisogna dimenticare che questo libro riesce a far scendere, in modo molto semplice, in un mondo fantastico che non conosciamo, dove convenzioni che noi diamo per verità assolute non lo sono più. Verità rappresentate metaforicamente dalla “gondola”, incomprensibile agli indigeni quanto a noi le formiche divora-cadaveri, o la caccia ad animali bizzari. A volte Sepulveda lo fa con l’entusiasmo della narrativa per ragazzi, in un libro che però per contenuti è destinato agli adulti.
“Allora devo leggerti tutto dall’inizio, così sai chi sono i buoni e i cattivi”
dice il vecchio ai suoi compagni di viaggio, increduli che sapesse leggere davvero.
– Di che tratta?
– Dell’amore.
– Non mi sfottere. Con belle femmine calde?
– No. Si tratta dell’altro tipo d’amore. Quello che fa soffrire.
Ma chi sono i buoni e i cattivi? Per gli shuar, senza dubbio, sono i gringos, uomini bianchi che non rispettano la foresta e sono venuti per uccidere con armi prive di onore (pistole e fucili) che non permettono il duello faccia a faccia, per cercare oro e pietre preziose.
Per il sindaco, senza dubbio, è cattivo il tigrillo, l’animale che impazzito, è a caccia di esseri umani da uccidere in cerca di vendetta. In realtà, il tigrillo ha perso i suoi cuccioli ed è stato ferito il suo compagno e non è altro che in cerca della morte da parte di un umano, che metta fine alle sue sofferenze: perciò Antonio José Bolivar, comprendendo il desiderio dell’animale, prenderà parte allo scontro.
Ma se qualcuno cerca la morte, è giusto dargliela?
Il libro è disseminato di vocaboli esotici privi di note, perlomeno nell’edizione che ho sottomano (Biblioteca di Repubblica, collana di letteratura latinoamericana, uscita in edicola qualche settimana fa), il tutto sembra creare ulteriormente una confusione strumentale, e i quali, andando a cercarne una traduzione, non trovano sempre un preciso e univoco chiarimento. Ancora una volta, Il Vecchio vuole rimandarci all’essenza, ovvero un mondo a noi vibrante e sconosciuto, senza avere alcun fine documentaristico o didattico (anche perché, fare chiarezza tra le tradizioni di tribù amazzoniche, molte anche scomparse, riti sciamanici e animali sconosciuti e incredibili, non è mica così facile).
Vi lascio con un vocabolario, in ordine di apparizione, dei termini apparsi nel libro, senza alcuna pretesa di precisione o esaustività, al fine di spiegare meglio le atmosfere in cui fa immergere Il vecchio che leggeva romanzi d’amore.
Elenco dei vocaboli e delle curiosità
tigrillo: felino sudamericano dal manto maculato e dalla lunga coda, detto anche gatto-tigre. Ricercato dai gringos per le pregiate pelli, è rispettato invece dagli shuar che non lo cacciano praticamente mai, visto che basta una sola pelle per fare monili per generazioni.
jibaros: indigeni messi al bando dal loro popolo, gli shuar, perché degenerati e degradati dai costumi dei bianchi
ix: serpente velenoso, lungo un metro, che si muove disegnando delle x sul terreno, e al cui morso non sopravvive mai nessuno. Antonio José Bolivar sopravvive, e la cosa viene celebrata con la Festa del Serpente
anents: poemi cantati
chica, natema: allucinogeni, la seconda in particolare è una pozione derivata dall’ayahuasca
ayahuasca: infuso psichedelico a base di diverse piante, in particolare liane di Banisteriopsis caapi e foglie di Psychotria viridis
sainos: piccoli cinghiali della foresta amazzonica
bagre guacamayo: pesce gatto gigante di due metri e più di 70 kg di peso, inoffensivo ma mortalmente amichevole, poiché colpi di coda di apprezzamento (una sorta di scondinzolamento) è in grado di spezzare la spina dorsale ad un uomo
tzanzas: bradipi inoffensivi che gli shuar uccidono, credendo che un antico capo sanguinario fuggì nella foresta e si trasformò in bradipo. Poiché i bradipi sono tutti uguali, bisogna ucciderli tutti. Con questo termine infatti si indicano più in generale le teste rimpicciolite, teste dei nemici preparate e conservate a scopo trofeale, tipiche degli shuar dell’Ecuador e del Perù. Le tsantsa sono citate in famosi film come Beetlejuice (Tim Burton), Nightmare Before Christmas, Indiana Jones, Pirati dei Caraibi, Harry Potter e videogiochi come Diablo II, Monkey Island e Assassin’s Creed.
Poesia da Luis Sepulveda a Carmen Yanez:
L’ultima nota del tuo addio
mi disse che non sapevo nulla
e che arrivavo
al tempo necessario
di imparare i perché della materia.
Così, fra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
raddoppiano la fame dell’orecchio
Che è la strada e la polvere
la ragione dei passi.
Che la via più breve
fra due punti
è il giro che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un pezzo di Vivaldi.
Che i geni gentili
stanno nelle bottiglie di buon vino.
Fonti:
Il vecchio che leggeva romanzi d’amore – Luis Sepùlveda
ISS – Istituto Superiore della Sanità – informazioni sull’ayahuasca
Casa editrice Guanda: https://www.guanda.it/autori/carmen-yanez/
https://www.repubblica.it/cultura/2017/08/20/news/luis_sepu_lveda_sono_morto_tante_volte_-173435132/