Craig Coley, 71 anni, è rimasto dietro le sbarre dal 1978 per un delitto mai commesso, lo ha scagionato il test del Dna: graziato dal governatore della California. In USA pene sempre più severe e sempre più ricorso al carcere per il “Correctional Business” che favorisce e ingrassa la lobby privata del sistema penitenziario
Un uomo in California è stato risarcito con 21 milioni di dollari dopo aver trascorso 40 anni in carcere per un errore giudiziario. Craig Coley, condannato per sbaglio per l’uccisione nel 1978 della sua fidanzata di 24 anni e del figlio della donna di 4 anni, è stato liberato nel 2017, dopo che le indagini hanno portato alla scoperta della sua innocenza, grazie soprattutto al test del Dna. Coley fu quindi graziato dall’allora governatore dello stato Jerry Brown. L’annuncio del maxi risarcimento è stato dato dalla città di Simi Valley, non lontano da Los Angeles. All’uomo, che oggi ha 71 anni, verranno versati subito 4,9 milioni di dollari, mentre il resto della somma proverrà da un’assicurazione e da altri fondi. Allucinante, semplicemente allucinante ma conoscendo il sistema e la sua deriva, nulla di cui stupirsi, commenta Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”. Gli americani lo chiamano “Correctional Business” perché anche l’amministrazione della pena è ormai diventata un affare. Il boom, del business carcerario in USA, è un fenomeno relativamente recente. Nel corso degli ultimi vent’anni, sono state costruite più di mille nuove prigioni e negli ultimi trent’anni, il numero dei detenuti e più che raddoppiato. Lo sviluppo delle privatizzazioni ha favorito la nascita di una grande e articolata “industria delle carceri”. La potente lobby, esercita forti pressioni su politici e magistrati, per impedire che nuove procedure e norme sulla libertà provvisoria, o nuovi finanziamenti alle prigioni pubbliche, interferiscano con i suoi interessi, incoraggiando, di fatto, l’incremento delle carcerazioni. Appaltatori, fornitori delle forze dell’ordine e sindacato delle guardie carcerarie, hanno fatto approvare una legge che inasprisce i tempi di detenzione: le celle non rimangono mai vuote. Il giro d’affari che prospera intorno al business carcerario vale miliardi di dollari l’anno. Più di cento imprese specializzate operano esclusivamente nel campo dell’edilizia penitenziaria, ma l’indotto comprende, oltre ai costruttori di “prigioni Chiavi in mano”, anche fornitori di servizi per la gestione penitenziaria, produttori di bracciali elettronici, di armi speciali, di sistemi di controllo. Nell’industria del carcere il settore delle nuove tecnologie è quello che cresce più velocemente, per le alte tecnologie impiegate all’interno degli istituti di pena: la schedatura elettronica interessa ormai un terzo della popolazione maschile. D’altronde l’”industria delle sbarre” svolge paradossalmente anche un ruolo calmierante nei confronti dei tassi di disoccupazione, sottraendo al mercato del lavoro migliaia di persone, ma crea occupazione nel campo dei beni e dei servizi carcerari. È stato calcolato che negli ultimi dieci anni le carceri americane hanno contribuito a ridurre, di due punti, il tasso di disoccupazione “assorbendo le eccedenze”. Cifre da capogiro, insomma, che non giustificano in alcun un modo un sistema che non appare assolutamente in linea con la funzione rieducatrice della pena e con la necessità dello Stato di Diritto di favorire la riabilitazione del condannato e il suo reingresso nella società. Il pericolo che anche in Italia possa essere replicato un sistema analogo è del tutto reale se si pensa che il leghista Pagliarini ha già proposto di affidare ai privati la gestione delle carceri. Un progetto che ovviamente, da Stato civile dovrebbe essere prontamente messo nel cassetto per evitare che si possa prendere la stessa piega di quello americano.