Le popolazioni italiche, soprattutto quelle rivierasche di tutto il Centro – Meridione, tra le loro paure ancestrali conservano ancora, con inconscio terrore, il ricordo dei Turchi, che, dopo la conquista di Costantinopoli (1453), presero a scorrazzare nei nostri mari con le loro agili navi segnate dalla mezzaluna islamica, devastando intere contrade e facendo strage delle inermi popolazioni cristiane, dopo aver dato sfogo alla loro ferocia con depredazioni, violenze ed incredibili torture, tutte rigorosamente turche. Basti ricordare, a riprova esemplare, l’eccidio nel 1480 degli abitanti di Otranto, perché si erano rifiutati di convertirsi all’Islam.[1] Il tutto fortunatamente finì bene sia per gli assalitori, che con la loro guerra santa si assicurarono un erotico talamo nell’islamico paradiso delle delizie, sia per gli sventurati idruntini, che, a scorno dei Turchi, furono santificati come martiri e si guadagnarono anch’essi la celeste beatitudine. Tutto è bene quello che finisce bene.
Le nostre popolazioni, però, non hanno mai mandato giù il fatto di essere state per lungo tempo oggetto dell’efferatezza ottomana, e da allora hanno bollato i Turchi con il marchio della barbarie, abbinandoli a saccheggi, distruzioni e stermini, ed appena ne hanno l’occasione non mancano di prendersi una tardiva quanto incruenta rivincita. Quando capita di essere a contatto con persone incolte, prive di senso civico e dal comportamento rozzo, dalle Alpi a Pantelleria si è soliti esclamare con ironico disappunto: ”Mamma, li Turchi”. In molte manifestazioni folcloristiche italiane, di richiamo turistico, oltre all’allestimento di cortei che ricordano i Turchi (Potenza), si infierisce contro un simulacro plastico dal volto magro, olivastro e baffuto, con sopracciglia a cespuglio e barba mefistofelica, chiamato normalmente “Turco o Saracino”; sono le cosiddette “giostre” in costumi d’epoca, in cui un pupazzo o una testa dalle fattezze turche fa da bersaglio alle lance di veloci cavalieri ( Italia centro-meridionale).[2] Nelle ricostruzioni storiche estive che simulano incursioni islamiche e battaglie navali tra Cristiani e Turco-Saraceni, i secondi, truccati in modo da avere aspetto ed atteggiamento feroci, vengono sempre respinti dopo lunga e strenua tenzone (Campania, Puglia). Nella “Sagra dei Gigli” di Nola, per significare i Goti di Alarico che devastarono la città all’inizio del secolo V, è inserito un figurante in una barca che, essendo metafora di vandalismo, non poteva che chiamarsi “Turco” e, di conseguenza, indossa sfarzosi abiti serici, turbante o copricapo arabeggiante, camicione, figaretto, ampi pantaloni retti da una fusciacca, ricco mantello e l’immancabile scimitarra da feroce Saladino, il tutto arricchito con vistosa bigiotteria.
A Castelbuono di Sicilia nella pasticceria locale una torta è chiamata “Testa del Turco”. Non mancano siti e località che li ricordano. Tanto per citarne alcuni segnaliamo la Grotta del Turco a Gaeta, la Scala dei Turchi, una parete rocciosa che si erge a picco sul mare lungo la costa di Realmonte vicino a Porto Empedocle (Agrigento), la Cala del Turco (Peschici), la Baia delTurco (Otranto) Le scorrerie turco-saracene sono anche ricordate nella canzone napoletana Michelemmà, la quale nel testo riporta: li turche se nce vanno Michelemmà, Michelemmà, li turche se nce vanno Michelemmà, Michelemmà, a reposare, a reposare. [3]
L’esagerata e quasi cromosomica pignoleria dei Turchi nel condurre devastazioni e stermini ha portato al luogo comune di estendere questa loro precisione unnica ad altri comportamenti negativi, visti in misura iperbolica, alla turca appunto. Perciò, se uno si attacca ripetutamente alla sigaretta è accusato di “fumare come un turco”; quando una persona è affetta dal detestato vizio dell’empia imprecazione “bestemmia come un turco”; chi si lascia prendere da un eccesso d’ira “si fa prendere dai turchi”, mentre chi parla in modo incomprensibile ed oscuro “parla turco”. Se poi ci si trova ad assistere o a partecipare a situazioni ed a fatti inusitati, sia piacevoli sia irritanti ed indescrivibili, si dirà di aver visto o fatto “cose turche”. Nel caso vi capiti di “sudare come un turco” sappiate che l’espressione si riferisce ai “bagni turchi”, locali pubblici o privati con atmosfera caldo-umida, usati dagli Ottomani per fare salutari saune ed abluzioni igieniche, mentre si conversa e si socializza stando seduti, manco a farlo apposta, con le gambe incrociate “alla turca”.
La terminologia collegata ai Turchi, oltre alle locuzioni citate, riguarda altri campi culturali. Tra i colori troviamo una tonalità di azzurro che prende il nome di “turchino”, a sua volta derivato dalla “turchese”, una preziosa pietra dura importata nei secoli passati dai paesi del vicino Oriente. Sono chiamati anche turchi particolari vasi per luoghi di decenza, installati a livello del pavimento, che richiedono una posizione accovacciata per essere utilizzati; la loro funzionalità li rende maggiormente igienici e pertanto sono adoperati in servizi pubblici.
Ma la parola “turco”, nel suo valore attributivo, ha acquisito nel nostro linguaggio anche l’accezione di cosa esotica, poco conosciuta e di forma strana; e così abbiamo l’uva turca o baresana, che può diventare “sultanina”; il ferro di cavallo turco, perché ripiegato a mezzaluna; i piccioni ed i polli turchi, diversi per piumaggio da quelli più comuni. Il mais, allorché fu importato in Europa dall’America centro-meridionale, avrebbe dovuto chiamarsi logicamente grano americano, invece, poiché per la fantasia popolare le cose insolite, sconosciute e strane dovevano essere necessariamente originarie della Turchia, prese il nome di granturco.[4] Per concludere, al lettore condizionato da questo excursus a sperimentare “cose turche”, suggeriamo di sdraiarsi su un’ottomana, il tipico divano turco chiamato anche “sultana”, e lasciarsi tentare e concupire da velate e sinuose odalische, come in un harem, mentre si degusta un caffé fatto alla turca [5] e si ascolta la “Marcia turca” di Mozart. Gli eunuchi sono facoltativi.
note:
[1] Una parte delle ossa dei Martiri di Otranto sono custodite nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli
[2] Arezzo, Paliano, Agropoli. A Faenza, in Emilia Romagna, nella festa del Niballo, che ricorda Annibale, il fantoccio, su cui si accaniscono cavalieri dotati di lunghe lance e che simula il generale cartaginese, è abbigliato come un turco.
[3] La canzone, del sec. XVII, erroneamente attribuita a Salvator Rosa, presenta un testo enigmatico.
[4] Nel dialetto dell’Agro Nolano il mais viene chiamato “graurinio”, corruzione di “grano d’India” ( Indie occidentali – America). La stessa formazione etimologica si riscontra in ficurinia, il fico d’India importato dall’America Centrale.
[5] E’ fatto miscelando caffè ed acqua bollente direttamente nella cuccuma e poi filtrato; risulta più denso perché trattiene la polvere del caffé macinato finissimo. Un tempo dalle nostre parti tale tipo di infuso era detto “alla monachina”, probabilmente perché era in uso nei conventi.