di Franco Vittoria (componente della Direzione nazionale Pd)
E ’ stato scritto e analizzato da ogni commentatore che si rispetti, dopo la pandemia il mondo non sarà più lo stesso e che per tentare di leggere il nuovo tempo con l’autonomia del Politico ci sarà bisogno di una cassetta degli attrezzi del tutto rinnovata. Ma c’è anche chi ha osato analizzare che nonostante i tempi così laceranti per ricostruire un nuovo tessuto civile ci sarà bisogno di ancorare questo periodo storico a un’idea di politica, a un’idea che ricostruisca un nuovo agire dello spazio sociale. Agire sociale che in questo periodo storico ha incrociato la frattura di ogni tipo di forme, politiche, culturali, civili che hanno completamente mutato il senso del fine tra persona e agorà. Le forme della politica avevano già contratto una frattura irreversibile, la pandemia ha accentuato queste fratture provocando una vera e propria «eclissi della sfera pubblica» e «nel momento in cui la città locale, per dirla con Castells, trasformandosi in città globale perde il suo carattere di luogo per diventare processo» , assistiamo alla costruzione di un nuovo spazio sociale che è allo stesso momento privatizzato e mediatico perdendo così pezzi di politica perché senza più il proprio spazio fatto di conflitti e passioni civili non esiste una politica della modernità . Così la perdita dello spazio sociale mette in crisi la politica come l’abbiamo conosciuta e comprime l’agire politico nel «sottosuolo della singolarità», c’è insomma, l’estinzio – ne delle dinamiche dell’agire politico come agire collettivo, e si introduce un elemento che provoca una nuova disuguaglianza, che Bauman descrive tra i “nuovi dominanti”, «tra chi appartiene ormai al mondo che ha abolito le distanza e riesce , appunto, a comandare in absentia e chi, invece, irrimediabilmente inchiodato alla determinatezza della propria localizzazione, al luogo della propria vita materiale, ne deve subire (la forza)» (Revelli). Gli inchiodati al luogo della propria vita materiale sono così condannati a subire un doppio prezzo: l’immobilità e la difesa di una memoria che ogni giorno perde di senso, producendo nuove forme di disuguaglianza sociali e culturali. Questa umanità popola ancora tanti paesi polvere della nostra Irpinia, abitanti di luoghi che raccontano memoria e radici ma che stanno perdendo la partita con i «gestori dei flussi». Se la politica nella nostra provincia deve misurarsi con una missione questa è la sopravvivenza di gran parte delle Irpinie! L’immobilità degli abitanti a difesa solo della memoria non basta, serve una visione di società , serve riconsiderare come il nuovo paradigma tecnologico si adatti alla memoria. Soprattutto l’Irpinia ferita dallo spopolamento e dall’immobilità ha bisogno di riconsiderare un nuovo patto tra Capitale umano e ricerca, l’esempio che potrebbe essere preso a prestito è la bella intuizione che l’allora prof. Manfredi rettore dell’Università Federico II ebbe incrociando la Apple. San Giovanni a Teduccio oggi è una felice realtà in un luogo difficile. L’Irpinia che soffre la desertificazione umana può candidarsi (recovery) a un cambio di rotta, e riconsiderare le terre di De Sanctis, le terre della ricerca e del Capitale umano. Ma questo significa riconquistare da parte delle forze politiche una nuova missione per l’Irpinia, significa «decostruire il potere della personalizzazione» attraverso la rinascita di una nuova autorità di classi dirigenti. Questa visione io credo debba essere coltivata dal campo progressista dei Democratici Irpini e il nuovo congresso che si celebrerà nei prossimi giorni può rappresentare un punto di inizio per la costruzione di un’idea-forza. Un’idea di società e di politica. Ma questa idea-forza deve camminare non lungo il sentiero della prova muscolare ma dentro l’aura dell’autorità ritrovata di una classe dirigente. Non serve testimoniare ogni volta che bisogna cambiare se non si indica dove andare, e spesso il cammino politico ha bisogno dei filamenti della storia per ricucire le fratture di questa complessità sociale. La deriva della personalizzazione perseguita anche il mio partito, ridotta in alcuni casi a vetrina dell’esposizione del potere. E Tronti fa bene a ricordare a tutti noi che non è il finanziamento pubblico che corrompe , è la privatizzazione personalizzata della funzione pubblica. E’ la privatizzazione della politica il vero pericolo di questo tempo. Solo riconsiderando la politica come nuova militanza, come Beruf, professione\vocazione riusciremo a ricostruire una nuova ambizione che guardi negli occhi le nuove generazioni. La politica non può riprodursi in una sorta di replica continua di «pragmatismo acquoso» in una sorta di impegno continuo della «contabilità di piccoli passi quotidiani». A questo partito democratico serve anche ritornare all’antico, curando l’umano che bussa alla porta della nostra civiltà, serve come scrive ancora Tronti «mitizzare» chi nel passato ha avuto cura di spegnere per ultimo la luce di una sperduta sezione di ogni dove del nostro paese. Abbiamo un debito di riconoscenza per i tanti che in questi anni , dalla nascita del partito democratico, nonostante scissioni e fratture come sentinelle che custodiscono un bene prezioso sono rimasti a guardia non di un potere da conquistare ma di valori da difendere. Tanti militanti in questi anni si sono spesi per un’idea di politica, per un sogno, per costruire insieme ai tanti giovani, uomini e donne una grande comunità di partito. In queste ore ho letto che il partito democratico deve cambiare. Ma cambiare come. Certamente deve avere l’ambizione di abbandonare i vizi che spesso vengono contestati; ma il nuovo modo di fare politica non può sacrificare le testimonianze, le storie, i tanti filamenti di tanta umanità che con le proprie differenze e le proprie sensibilità culturali hanno arricchito questa comunità.
La complessità del partito democratico ha spesso ristretto il campo alle competenze, agli intellettuali, alle associazioni a quel mondo senza casa che fa fatica a guardare al nostro mondo con simpatia. Anche qui serve una nuova missione, saper riconquistare una nuova dimensione di azione collettiva che possa sanare anche nella nostra provincia la frattura con il mondo della cultura, ripensando a nuovo concetto di luoghi che veda gli operatori della cultura protagonisti del motore culturale del Pd. Ma che cos’è cultura politica? Si chiede ancora una volta Tronti. «E’ un luogo dove il corpo della politica prende una veste fatta di cultura , e lo spirito della cultura si misura con un materiale fatto di politica. La cultura politica non occupa, né esaurisce, l’intero campo ben più vasto della cultura. Questa rivendica giustamente la sua autonomia. Come non tutto dell’essere umano è riducibile al politico, così non tutto del lavoro intellettuale è da gettare in politica». Lo sforzo di questo congresso non può essere solo una conta di numeri, c’è bisogno come l’ossigeno di ripensare a una nuova consapevolezza delle nostre identità: socialismo e cristianesimo e una nuova forma organizzativa della nostra rappresentanza interna al partito, che privilegi l’iscritto e i circoli come motore sociale della nostra azione politica. Un segnale positivo in queste ore è arrivato, ci sono due candidature che nobilitano questo congresso, ma non basta, serve capire se candidiamo un’idea di partito e di società o candidiamo «numeri». Il congresso può rappresentare pertanto un’ occasione importante per capire nel profondo cosa si è spezzato nella nostra comunità, senza infingimenti e senza unità di facciata. Riprendere il filo del confronto significa bandire il risentimento che è diventato negli ultimi tempi la cifra del nostro agire quotidiano. Il compito di chi guiderà il partito non sarà facile senza la condivisione di un progetto che si alimenti dalle idee e dalle competenze culturali, oserei dire che abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo e di un partito che parli ai paesi e ai tanti “abitanti immobili”. Il congresso deve anche saper «riorganizzare domande» diventando uno spazio sociale per acchiappare pensieri e ascoltare proposte. Sarebbe interessante in questi giorni ragionare di come la camorra ha invaso in modo «liquido» molte comunità dell’Irpinia; sarebbe interessante affrontare il tema dei trasformismi che considerano la militanza un fastidio. Sarebbe interessante ascoltare parole chiare sul futuro della città di Avellino. Sarebbe interessante ragionare di welfare e sanità.
Sarebbe interessante ragionare di fabbriche e operai per riannodare i fili spezzati con pezzi di umanità. Il congresso deve candidare un’idea di Irpinia sapendo che il Pd non può essere un blocco di movimento ma un campo, largo e inclusivo. Perché il campo? «Il campo non ha più il centro nella tenda del comandante». La centralità politica è un continuo divenire che appartiene ogni volta al flusso dei pensieri e delle idee organizzate per allungare il passo. Conosco l’equilibrio di Nello Pizza, certamente se sarà eletto farà bene il segretario, ma dovrà catturare le storie, aprire luoghi e macinare esperienze, ascoltando le idee e non le persone, organizzando un partito capace di reggere l’urto delle nuove povertà camminando a testa alta senza l’assillo di cercare il comandante. Un ultimo pensiero va ad Aldo Cennamo che nonostante le tante difficoltà ha saputo sempre mantenere la barra dritta della dignità e onestà intellettuale.
(articolo pubblicato dal quotidiano del sud – domenica 21 febbraio 2021)