Non era uno dei giorni migliori per ritornare al Campo di Summonte, ma aveva, rispetto agli altri, il fascino freddo del sole di fine dicembre, la sensazione di essere sovversivi nei confronti del Natale, e il desiderio di catturare qualcosa di nuovo, ma anche di identico, a distanza di anni.
Più che di giorni migliori, sono viziata da decenni migliori. Da distese di margherite, dal profumo di fiori estivi.
La Guida Sentimentale ai Monti del Sud di Emilio Buccafusca si apre proprio con un’escursione al Campo di Summonte. Sono solo un paio di pagine, ma traboccanti di immagini, come un dipinto velocissimo e preciso. Lo scritto s’intitola “Al Vallatrone per il Campo di Summonte”.
Penso che sia il primo posto di cui ricordo di essere stata.
Se ripenso alla mia infanzia ad Avella la prima immagine che mi viene alla mente è senza dubbio il Campo di Summonte. Ci sono stata dieci, cento, mille volte. Ricordo i fili d’erba verdi e lucentissimi, la lunga fontana di pietra traboccante d’acqua ghiacciata, abbeveratoio per le mucche. Era una vasca, una piscina imperiale, alle sue spalle delle piante secolari facevano da guardiane circondando la piana. Al Campo di Summonte sempre c’erano le vacche, erano di tanti, vari colori, dal pelo lucido, rosse, bianche, nere, a macchie.
Ci volevano dalle 2 alle 4 ore, l’aria era fresca e pura. Dei tanti percorsi che potevamo fare, quello al Campo di Summonte era per me il più bello. Partiva ricco di fiori, ginestre, sassi sul selciato, bruchi e poi farfalle, conoscevo ogni angolo di quel sentiero sassoso baciato dal sole. Diventava dopo ombroso, composto da alcune curve piene di piante che spuntavano dal sottobosco, e poi s’infilava tra gli alberi fitti.
Si passava anche per un punto, un piccolo piazzale, che chiamavo Il Campo dei Grilli. Ad ogni passo, migliaia di piccoli grilli di ogni colore saltavano scappando, per poi muoversi ancora, allegri e irrequieti, bianchi, azzurri, grigi, verdi. Se quell’erba fosse stata un’universo, i grilli erano parte del firmamento, minuscole stelle comete che sfuggivano ai miei passi e poi vi ricadevano dentro. Un universo in un altro universo: il mio, fatto di un pianeta che non conoscevo ancora, e che man mano si formava ai miei occhi. Avevo sicuramente meno di quattro anni mentre vivevo tutte queste storie.
Ciò che fin dall’inizio prese forma nella mia mappa furono proprio quelle montagne, con la Valle delle Fontanelle e il Campo di Summonte. Il cielo era sempre azzurro su di loro, su quella Valle, sui sassi bianchi tirati nel Clanio.
Sarebbe affiorato a breve nella mia coscienza, sotto al portone scuro della casa in cui abitavano i miei nonni, una domanda, illuminata solo dalla luce azzurrina del bagno, mentre varcavo verso la stanza in cui c’era il camino: perché, visto che esisteva un mondo intero, io ero lì? Perché quello era il mio nome e quelli che mi avevano insegnato erano i nomi dei miei genitori, e dei miei nonni? Perché avevo quell’aspetto, che iniziavo a riconoscere nello specchio? E perché il lungo gatto grigio, Bri-Bri, che dormiva sul divano grigio sotto al portone, era proprio grigio, dalle zampe bianche, il pelo lucido e le unghie arcuate e affilatissime, come se quello fosse l’unico suo modo di essere, univocamente determinato? Perché proprio Avella e tutti quei dati che pian piano stavo immagazzinando?
Era strano, era maledettamente strano, che con tutti i miliardi di possibilità che c’erano, il caso aveva fatto girare la ruota e per me s’era creato proprio quel mondo, l’unica soluzione possibile. Tutte le cose che mi circondavano, erano bellissime e determinate da qualcosa sulla quale non avevo potere.
Ricordo che ci fu un esatto momento di transizione tra il vivere e l’osservare e l’analizzare e imparare ciò che mi stava accadendo e il momento in cui presi esattamente consapevolezza di chi ero, e trovavo tutto così strano, che io ero proprio io, in quel posto, che tra l’altro era straordinario: guardate che razza di fortuna mi era capitata.
Avevo appreso che io ero Valentina, e al mattino mi svegliavo, e andavamo a fare delle passeggiate nella Valle delle Fontanelle, al Castello, al Campo di Summonte.
Poi sono passati gli anni, e sono apparse altre cose. La scuola elementare, le grandi città, altri mondi, e il Campo di Summonte si è allontanato. E’ rimasto però indelebile nei miei ricordi, una piana che riappare nei sogni, luogo di confine immobile e fermo in cui quella bambina continua a giocare. Ricordo il cappello di mio nonno, l‘albero secolare sul quale mi arrampicavo e le sue radici, i colori della primavera e poi dell’estate. Lo scampanellio delle vacche, il casotto dei pastori che facevano il formaggio.
Tra i miei ricordi, una volta, al ritorno dal Campo di Summonte, avevo un bruco su una foglia. Era un bruco stupendo, grande quanto la mia piccolissima mano, dai buffi peli verdi e le estremità rosse. Era così bello e morbido che si poteva accarezzare, sembrava uno dei peluche che tenevo riposti a casa nella cassapanca bianca. Vi immaginate lo stupore di una bambina nel trovare un bruco così? Su questa lunga foglia lucida e verde lo stavo portando via con me, ponendo attenzione a non farlo cadere, ma quando giungemmo alla macchina mi accorsi che il bruco era scomparso. Fino a pochi secondi prima l’avevo visto, e dopo non c’era più. Da allora ho amato tutti gli insetti, in particolare i bruchi, i bruchi pelosi.
Conobbi, tra i tanti animali che incontravo, anche delle bellissime farfalle nere. Avevano il corpo oblungo a strisce bianche e nere, ali lunghe e affusolate di colore nero con puntini bianchi, e anche se nel complesso erano meno leggiadre delle altre farfalle, erano più originali, con quell’aspetto da farfalle notturne vestite a festa, falene in abito da sera anni ’50. Era l’Amata Fegea. Le trovavo spesso a due a due unite con la parte posteriore del corpo, innamorate, non si staccavano neanche quando volavano.
Dopo molti anni, oserei dire un paio di decenni, mi sono chiesta il Campo di Summonte dove fosse finito. Non s’era mai spostato, lo sapevo, e avrei potuto tornarci in qualsiasi momento, così come in altri luoghi dov’ero stata, e proprio forte di questa certezza non mi ero più preoccupata di andarci. Per qualche motivo nel tempo non era più accaduto. Avevano preso forma altre cose, e queste si succedevano senza sosta. Il Campo di Summonte era rimasto lì, come il passato che non può essere cancellato. Ciò che è stato è stato, come potrebbe scomparire? Ma le montagne non erano rimaste quelle di un tempo, sotto sotto lo sapevamo. Anche per questo avevamo smesso d’andare. Erano cambiati i tempi, erano cambiate le usanze, erano cambiate le passeggiate.
Così in una giornata di fine dicembre di un presente molto vicino (quanti dicembre ci saranno nel presente?), panettone attaccato allo zaino e una bottiglia di spumante, ci siamo incamminati. Non mi piaceva nessuno dei due, spumante e panettone, ma per il piacere di festeggiare in un modo atipico, ero assolutamente entusiasta dell’idea.
Il percorso era ed è ancora semplicissimo, quasi interamente in piano. L’aria fresca di montagna, rende i diversi chilometri di cammino piacevolissimi e meno stancanti di metà di quei chilometri in città, dove l’aria impura e il caos quotidiano non rilassano né il corpo né lo spirito.
Siamo partiti dalla località Tre Castagni. Sul percorso, ci siamo soffermati, di proposito, alla Bocca dell’Acqua e al ritorno al Campo dei Grilli.
Nessun grillo c’era in quel giorno d’inverno, ma l’erba, quella era identica, con una coltre di nebbia bassa e cupa che avvicinandosi da un vicino e ripido pendio sembrava sussurrarle di star buona e di nascondere i suoi segreti a noi che oramai eravamo adulti.
Per quanto riguarda la Bocca dell’Acqua, si tratta di un punto, una roccia-grotta, dalla quale l’acqua sgorgava copiosamente, alimentando il fiume Clanio. Un tempo la vegetazione era molto più rigogliosa e l’acqua che scorreva nel Clanio permetteva ai contadini di irrigare i campi. Alla fine degli anni ’50 la Bocca dell’Acqua fu incanalata, la Cassa del Mezzogiorno fece i lavori ed il fiume si ridusse. Prima di essere incanalata la Bocca dell’Acqua aveva una portata d’acqua grandissima (tant’è vero che hanno trovato utile captarla) e percorrendo quei sentieri prima del ’57 se ne sentiva il rumore, un rombo che, a detta di chi lo ricorda, ad intervalli di qualche secondo faceva un botto, cadendo “al di sotto” in qualche punto. Era considerato un luogo pericoloso intorno al quale fare attenzione e si raccomandava alle contadine di non avvicinarsi. Percepito come un inghiottitoio, c’era il rischio di caderci dentro e annegare.
In questo dicembre, oltrepassata la Bocca dell’Acqua, dopo un’oretta e più a camminare in un bosco in cui non succedeva niente, si aprì davanti a noi il Campo di Summonte in un modo molto diverso da come lo ricordavo. Non era di ampio respiro, ma più stretto, affogato, anche se verde, erboso, e comunque per certi versi ancora molto bello. Forse lo ricordavo immenso perché ero piccola? La fontana era uguale, ma il campo pareva ristretto in lavatrice. Forse quel paio di costruzioni nuove c’entravano qualcosa?
Una mandria di cavallini era nei dintorni della fontana, e vedendoci alcuni si allontanarono nascondendosi tra gli alberi alle spalle. Era tutto immobile. Il tintinnio delle vacche non c’era, se non lontanissimo. Ci pervase una sensazione di tranquillità, i cavallini, la nebbia nel bosco, il sole che all’improvviso infrangeva i suoi raggi nella vasca, mentre raffreddavamo lo champagne da festa mettendolo nell’acqua. Era bello, ma molto diverso dai miei ricordi. Persone diverse, stagioni diverse. Costruzioni diverse, memorie perse.
Sicuramente alcune cose allo stato attuale sono oggettivamente cambiate: le strade sono più battute di un tempo, abbiamo trovato un paio di jeep parcheggiate e anche una nuova costruzione, piuttosto grande. Non sembra più il campo lontano da ogni cosa che si apriva dinanzi a noi solo dopo due o tre ore di cammino, ricoperto di margherite, rumore di acqua scrosciante, ghiacciata, cristallina e distesa nella fontana, a volte macchiata da chiazze verdi pure nel loro colore come un inchiostro, come una forza propria della natura che si espandeva ovunque, anche nell’acqua di una fontana di pietra.
Bisognerebbe ritornarci in primavera prima di poter dire con certezza quanto il Campo di Summonte è effettivamente cambiato. La vegetazione era invernale e piuttosto scarna. L’unica carne era quella dei ciclamini, umidi e vellutati, che crescono in abbondanza nelle zone ombrose, una costante nel terreno morbido. Qualche Crocus sembrava sperduto qua e là. Il Crocus, il principe del Campo di Virgilio, è un fiore che qui sulle montagne di Avella ho sempre visto, la cui bellezza non passa mai inosservata. Oltre al Crocus, solo un’altra pianta, apparentemente qualsiasi, ha attirato la mia attenzione: l’Helleboros Foetidus, una piantina della famiglia delle Ranunculaceae. Nonostante il nome ingannevole, l’Elleboro non ha nessun odore sgradevole, e risaltava, di colore verde scuro, nel fogliame rosso-bruno del percorso di ritorno. Un bel fiore verde si ergeva come spartana ed unica manifestazione floreale nel bosco, dando l’idea di una piantina preistorica, al punto da mettermi alla ricerca di informazioni su di essa. In una foresta selvaggia in cui non sono permessi i colori, sintomo di debolezza, in cui si pensa solo alle cose pratiche, i Crocus parevano in fondo pagare il prezzo della loro bellezza, fatta di fragile solitudine. I ciclamini, così nascosti, non prendevano parte all’elenco dei fiori, carni destinate a nascondersi nella terra. L’unica pianta, vispa, diritta, con un fiore che non sembrava neanche un fiore, era questa benedetta piantina preistorica. Essendo inverno, i fiori erano pochi.
Questa è stata l’ultima immagine fiera di prima di ritornare al paese, con le stelle che affioravano nel cielo grigio argento al crepuscolo, prima del traffico su Mugnano, prima della spesa, della tavola messa, prima di Natale, dell’aria intossicata dai camini.
Buon Natale, vi direi, se non fosse che siamo a giugno.
Vi lascio, come al solito, con alcune righe di Emilio Buccafusca.
Tra fiori selvaggi e profumi di menta, finocchio e rosmarino, vanta nel primo tratto oliveti che offrono i rami quasi braccia di candelabri d’argento ed insinuano pace ai malaccorti che osano imprecare alla ripidezza ed alla impervietà della sassaia.
D’inverno non c’è nessuno ed il vento infuria tremendo e iracondo con l’ira della solitudine contro le querce robuste e i rametti stecchiti sollevando la neve che pur violata riprende cristallina la sua verginità.
D’estate alpeggiano gli armenti trasportati dal Tavoliere ad urli e sassate dai bovari che tornano adesso ancora dalla Germania e dalla prigionia. […]
Nella bàita del Campo, accanto alla sorgente, i padroni lavorano burri e caciotte, così come da secoli gli avi degli avi.”
(Emilio Buccafusca, Al Vallatrone per il Campo di Summonte, scritto numero 1)