“Su quel poggio il mistero non vi abbandona mai, vi sforza all’attenzione, vi pesa addosso, come quando si aspetta qualche cosa e non si sa che. Forse errano attorno spiriti invisibili, come formiche sulla terra brulla, come ragni nelle muraglie, come vipere fra le macerie. Vi ronzano per la mente tutte le panzane dei contadini: le fate dei boschi che vi fanno ricchi; la volpe che mangia solo il cuore delle ragazze morte, e poi se ne lamenta al chiaro di luna piena; le streghe caprine a cavalcioni delle scope, il lupo eremita, che, ospitato per elemosina ruba la figlia del villano; la fanciulla bianca bianca che va giorno e notte cogliendo fiori e non arriva mai a farsene una corona per essere seppellita. E tutte insieme vi timultano in capo, danzando una ridda grottesca.” (Avella, Francesco Guerriero)
Tra tanti posti non avevo mai parlato del castello di Avella, perché ritenevo non ce ne fosse bisogno. Perché sicuramente altri ne hanno parlato, a partire dal Francesco Guerriero nel suo libro su Avella del 1888 che gliene dedica addirittura un intero capitolo. Perché sul castello ci sarebbe così tanto da dire e sarebbe stato un argomento troppo facile, rapido e bello per approfittarne anche io.
La pensavo così anche perché è uno di quei posti dove sono stata più volte in assoluto nella vita. Alla fine degli anni ’80 e ’90 era selvaggio, quando salivamo a fare delle passeggiate, io con i miei genitori e con i nonni, al massimo sentivamo il tintinnio dei campanacci delle pecore arrivare in lontananza. Il castello conservava la sua struttura originale, senza i moderni rimaneggiamenti. A volte avevamo delle scuse per andarci anche la sera, a partire dalle osservazioni in notturna con un bel telescopio. Sul castello passavano gli anni, le leggende e le comete, come quella di Hale-Bopp nel ’97. Così come io adesso sento di averci passato l’infanzia (e molti altri ragazzi), allo stesso modo provavano questi sentimenti di nostalgia e possesso le generazioni precedenti, che usavano il castello per passare un po’ di tempo. Si raccoglievano fichi d’india spontanei. La “bricconata” più classica che si poteva fare era salire all’interno della torre principale, che non aveva nessuna scala, neanche per entrarci, semplicemente arrampicandosi.
Agli occhi dei visitatori ‘stranieri’ che a volte portavo per una passeggiata pomeridiana, il percorso turistico del castello, ancora incompiuto fino a qualche anno fa, sembrava ad ostacoli e dava l’idea di una piccola avventura a portata di mano che li colpiva particolarmente. Entravamo ogni volta dal lato che affaccia verso Avella, Nola e Napoli e che è la salita più intuitiva, e non dal retro, riservando alla grande muraglia posteriore solo alcuni momenti prima di andare via. La natura è sempre stata rigogliosa ed è il posto fotografico – a portata di mano, s’intende – per eccellenza. Su quella unica ampia finestra sulla sinistra della torre che affaccia sulla catena di monti, sono state scattate migliaia di fotografie. Una cornice che racchiude gli anni ed il tempo che scorre, con la storia di tutta Avella.
L’ultima volta che eravamo stati qui, nel mese di maggio, prima del Castello Incantato, un’esplosione di coccinelle tra i fili d’erba e di bruchi a grappoli sulle ginestre ci avevano accolto nella salita. Li ho immaginati spiccare il volo, quei bruchi sospesi su piccole mongolfiere che lentamente si tramutano in ali, nascosti a gruppi per non essere mangiati dagli uccelli (e nessuno li mangiava: una sorta di rispetto per ciò che diventerà assolutamente bello?). Quegli stessi bruchi graziosi e pelosi che incontravo sulla strada per il Campo di Summonte, che volevo portare a casa con me e poi mi sparivano fra le dita.
Però, se in generale il castello è un posto dove stare in solitudine specialmente d’inverno, d’estate è spesso sede di attività, come i Lunedì Jazz al Castello, o da un po’ di anni,Il Castello Incantato, che è alla terza edizione, da un’idea di Bassa Irpinia. Così, con la “scusa” del Castello Incantato, finalmente ne parlo.
Personalmente, non posso che essere contenta di una festa medievale nel castello di Avella. Di feste medievali in Campania ce n’è qualcuna: la prima che mi viene in mente è quella di Rocca San Felice (AV), alla quale sono stata più volte, forse la più famosa e suggestiva di tutta l’Irpinia. E’ l’esempio, quella, di una festa medievale bellissima, per la falconeria, la torre, lo scenario complessivo. Un’altra festa molto gradevole è quella di Faicchio (BN), dove si organizza una corsa tra i galli, ma non sono certo le uniche due, poiché molti paesi organizzano delle rievocazioni medievali, come Gesualdo (AV), Teggiano (SA) e volendo potrei allungare di molto la lista solo usando paesi della Campania. E avendone viste parecchie (non solo in Campania, ma anche ad esempio in Toscana, tra le più commerciali posso citare Certaldo, dove fanno addirittura pagare un esoso biglietto d’ingresso), posso tranquillamente ammettere che Avella ha del potenziale più di molti altri posti.
Così saliamo al Castello Incantato. Due fate dai capelli rossi e la frutta secca ci accolgono all’ingresso. E’ la mortarella, la nocciola di Avella. L’accoglienza è molto buona. Non ci sono problemi per parcheggiare e le navette fanno avanti e indietro per chiunque ne abbia necessità, anche se a piedi si tratta di fare solo poche centinaia di metri, infatti scegliamo di andare a piedi.
La nuova strada predefinita sale al castello dal retro (mentre un tempo, come dicevo, si saliva dalla parte opposta, dove è più diroccato, dal lato che affaccia sui paesi verso il mare), mostrando direttamente il lato migliore del castello, quello più intatto. In questo stesso giorno, purtroppo, il 29 giugno 2018 un enorme incendio, quello dell’ecologia Bruscino a S.Vitaliano, guasta il paesaggio. Ma non è colpa nostra, di certo. Avella è il primo baluardo medievale di un mondo diverso che s’incontra allontanandosi dalla piana di Nola. E’ l’accesso all’Irpinia, al confine, territorio in cui i suoi abitanti contengono mescolate le abilità commerciali e comunicative dei napoletani ed il sangue normanno.
Intorno al castello ci sono tante leggende, una delle più interessanti è quella del diavolo serpente, ne parla, insieme ad altre, Francesco Guerriero. Il concetto ricorrente in queste leggende è sempre lo stesso: al castello di Avella era nascosto un tesoro (o dovrei dire che è ancora nascosto un tesoro, visto che nessuno l’ha mai ritrovato) protetto da spiriti maligni, da un diavolo-serpente e fantasmi e chi prova a portarlo a casa si ritrova sballottato sui monti, o ancor peggio nei rovi (di cui effettivamente il Partenio in alcuni punti è pieno: ne sappiamo qualcosa). Si può facilmente dedurre che alla fine dell’800 questo castello venisse descritto da molti come un luogo tetro, e un po’ fa sorridere che da posto infestato da spiriti sia diventato nel secolo successivo un luogo di giochi, di serate estive e di passatempi in compagnia. Il castello è tutto fuorché oscuro, e in effetti lo stesso Francesco Guerriero successivamente “si tradisce”, facendo un ode alla meraviglia della natura che lo attornia, del tutto in contrasto con le frasi da lui adoperate all’inizio del capitolo, che chiamavano in gioco acuti stridi di pipistrelli, tetre divinità, fuochi fatui del camposanto vicino, lupi, volpi che mangiano i cuori delle ragazze morte, Sabba colle streghe del nord e fantasmi di principesse inquiete. In effetti, questa cupa descrizione, che è seguita dalla trascrizione di 3 o 4 leggende nel dettaglio, e per ultima, una storia di tutt’altro tipo, senza tesoro, in cui una coppia di giovani amanti, Cofroa e Bersaglia, che erano un principe ed una principessa fuggitivi dalla Persia (dai capelli biondi lui, di straordinaria bellezza entrambi) presero possesso del castello. I due si amarono, ma la morte prematura della principessa portò Cofroa alla decisione di ritornare in Persia e abbandonare il luogo che prima gli aveva dato tanta felicità e adesso era solo sede di tristi ricordi. Bersaglia però, in questa leggenda, gli riappare e lo trascina con sé nella tomba. Quest’amore che li aveva uniti in vita, si avvale del diritto di decidere anche della morte di chi dei due era sopravvissuto, facendo morire Cofroa prima della partenza.
Storie dal fascino gotico a parte, le pagine di Francesco Guerriero sono per fortuna anche infarcite di elementi positivi, da descrizioni poetiche e da notizie storiche sul castello, che venne eretto lì dove prima sorgeva un tempio dedicato a divinità greco-romane, e che fu a lungo frequentato da sovrani normanni e longobardi (infatti presenta torri sia a base quadrangolare che circolare, ricordiamo che ciascun popolo aveva la peculiarità di fare torri di un particolare tipo). I longobardi introdussero nella zona il culto di S.Michele, non a caso un po’ più avanti s’incontra, sulla strada per le Fontanelle, la famosa grotta di S.Michele e la stessa fortificazione longobarda-normanna di cui stiamo tanto parlando è talvolta detta Castello di S.Michele.
E’ evidente che Francesco Guerriero ha una qualità in particolare: oltre a dare informazioni (che sono comunque numerosissime, ma riprese da altri testi, sostanzialmente), ha la capacità d’allungare il brodo e poi allungarlo ancora. Più che un libro di storia, è un ode ad Avella, scritto con un lessico ed un trasporto invidiabili ai migliori autori romantici (e del suo Sentimentalia – Lettere ad Amelia, si può dire lo stesso: quante persone in quegli anni, ad Avella, sapevano scrivere?). Sicuramente le idee di Francesco Guerriero risentivano delle mode del periodo, come su detto, del romanticismo e post romanticismo, ma ciò non toglie che questo su Avella è un libro che è un atto d’amore, pubblicato a sue spese – spese che il comune di Avella, nonostante le promesse, non rimborsò mai – da una tipografia napoletana, città in cui Francesco Guerriero, che era avvocato, lavorava.
Così, traendo spunto a sua volta da altre fonti, Francesco Guerriero in questo libro riporta la storia e le leggende di Avella aggiungendoci molto del suo.
Sulla storia del castello di Avella anche qualcun altro, di recente, aveva provato a lavorarci su. Era il 2008 quando sbobinavo, per conto di Nicola Pugliese, le registrazioni di Rainaldo II – Signore di Avella, Tufino e Campopiano, una rappresentazione teatrale – molto ironica – che mostrava le vicende del feudatario del castello Rainaldo, e che Pugliese, quasi cieco, stava componendo avvalendosi di un registratore. Ai tempi, ad Avella, nonostante l’autore fosse in vita e fisso al caffè letterario Pasquino nella piazza del paese – autore che ricordiamo aver scritto nel ’77 un unico ma perfetto libro per Einaudi, con prefazione di Calvino, dal titolo di Malacqua (tralasciamo la successiva raccolta di racconti brevi La Nave Nera, pubblicati solo nel 2008) – nessuno aveva avuto tempo ed energie da dedicare per realizzarla davvero ed io stessa ai tempi mi tirai indietro presa com’ero dai miei studi universitari, che Pugliese definiva, prendendoci in giro con affetto, “aridi”. Rappresentazione che fu poi messa in scena dal fratello e regista Armando Pugliese molti anni dopo nei teatri di Napoli, ma che aveva come ambientazione originaria il castello di Avella.
Ma ritorniamo alla manifestazione Il Castello Incantato, che è il vero motivo per cui mi son rimessa a scrivere e la cui atmosfera è delicata come non credevo. Siamo al tramonto: si succedono la golden hour e la blue hour, che in gergo fotografico sono l’ora prima e dopo il calar del sole, in cui si mostrano particolari colori. Una danzatrice vestita di rosso, un mangiafuoco e gli spettacoli pirotecnici incalzano con l’approfondirsi della notte. Il servizio navetta va ancora avanti e indietro efficacemente come se fossimo in Svizzera. Di solito si pensa che sia meglio godere del castello quando non ci sono persone, magari rimpiangendo pure un po’ – poiché siamo nostalgici e dobbiamo sempre lamentarci – i tempi in cui era selvaggio e senza mano dell’uomo, per tanti anni dimenticato. Eppure il Castello Incantato non fa rimpiangere niente. Ascoltiamo gli Emian Pagan Folk, gruppo di Cuma specializzato in musica medievale. A seguire ci sono i Golfers, duo elettronico di Avellino.
Il Castello Incantato è una festa molto giovane, e quindi si ingrandirà ancora, ma le premesse ci sono già. E’ una festa diversa da quelle alle quali siamo abituati, diversa dalle tradizioni avellane ma che ben s’incastra nel meraviglioso scenario, e che può crescere, crescere ancora, perché dispone della sostanza, che altri paesi non hanno: il castello.
Se infatti, in tutte le leggende si parla di un tesoro al castello che non è mai stato ritrovato, è perché quel tesoro non può essere portato via.
Il tesoro è il castello stesso.
Perché, come scrive Francesco Guerriero, “si può campare mill’anni, ma una gita al Castello di Avella non si può dimenticare.”
E il Castello Incantato è uno dei tanti modi per mostrarlo a chi non c’è mai stato prima e viene da fuori – forse quello più adatto – strano non averci pensato prima. Ma d’altronde, sempre per citare le parole di F.Guerriero, se, seduti al castello su una pietra viva concava “non vi sentite poeti almeno per un quarto d’ora, state certi che non lo sarete mai, campaste più di Matusalemme”.
Vi lascio con le leggende del castello tratte dal F.Guerriero, ma sicuramente se ne possono ricavare di altre, anzi, invito chi ne conosca a riproporle, ove sia possibile citandone le fonti.
Andate là, cercate, non molto lungi dal torrione, una pietra viva concava, sedete e fate colazione.
Se non vi sentite poeti – come dice Guerino – almeno per un quarto d’ora, state certi che non lo sarete mai, campaste più di Matusalemme; se non capite la sublimità di quella viva e giovane bellezza, che si desta col giorno al canto degli uccelli, allo sbocciare dei mughetti, al vibrare dell’aria serena e pura, girate il mondo come commessi di commercio per vendere acciughe e candele di sego, ma non mai con la pretesa di capire che cosa sia bellezza.
Leggende del castello (originali, Francesco Guerriero, 1888):
La fantasia popolare ha popolato il Castello di una moltitudine di spiriti, e forse qualche contadino, sul far del giorno o sull’aprirsi della notte, li vide ballonzolare allegramente o avvolti in bianchi lenzuoli, come fantasmi, o coperti da lunghi e quasi aerei mantelli grigio-azzurri, che si confondevano con la tinta delle nubi…
Il diavolo con i piedi d’oca, la pistola e il tesoro
I vecchi del paese narrano – ma questi fatti appartengono al passato – che il diavolo, di notte, passeggia sul muro doppio, vestito tutto di rosso, con una spada grossa al fianco, con due corna, lunghe lunghe, coi piedi d’oca, e di giorno si nasconde nel sotterraneo del torrione, dalla genterella detto criminale. Quivi è la sua abituale dimora, la sua reggia, il suo trono; quivi celebra riti spaventevoli e custodisce immensi tesori, da lui, artatamente, carbonizzati. Quando qualcuno penetra nel sotterraneo e cerca il tesoro, l’amico spara una pistola; il sotterraneo s’empie di fumo e non se ne può più ritrovare l’uscita. Se non si lascia quello che s’è preso il fumo non cessa, e si potrebbe restare là morti. Se, per la furia di scappare, v’è rimasto nelle saccoccie qualche moneta d’oro, ecco, per la discesa della collina, il diavolo alle vostre calcagna, che grida: posa, ca pesa!
Il monaco con il cannone
Si racconta che un certo prete, che aveva il libro del comando, risolse di andare a prendere il tesoro; e menò seco trenta persone, che reputava coraggiose quanto lui. Diceva a quelle: – Sapete? Non v’impaurite di niente. Qualunque cosa vedrete è finzione. Quello… che sta là, vi può mettere paura: ma non vi può fare nessun male-. Vanno e si dispongono in giro nel torrione. Il prete comincia a leggere nel libro, ed a fare scongiuri e segni negromantici. Ed ecco, che in mezzo al circolo apparisce una testa, e poi, pian piano, sorge la persona di un monaco, che, l’un dopo l’altro, affisa quegli individui. Poi ricala, e risale, e di nuovo ricala; ed ogni volta, che andava giù, faceva sentire un gran rumore di danari, come cadessero più fitti di una grandine. Da ultimo, risale ancora, con un cannone in braccio. Lo posa a terra; poi, accesa una miccia, e preso il cannone con la mano sinistra, comincia a puntarlo in petto a ciascuno dei trenta. Il prete, frattanto, alzava la voce e gridava: Coraggio, coraggio, compagni! Non abbiate paura; è finzione, è finzione! – Mentre ciò diceva, il monaco, che teneva il cannone puntato innanzi al petto d’uno dei trenta, avvicinò la miccia per sparare. Per la paura, il poveretto casca immediatamente a terra. Nello stesso momento, il monaco dette un calcio in giro ai trenta; e più presto che non arrivi una palla di fucile, si trovarono chi sulla Montagnola, chi sul Ciglio, chi nel Vallone delle Rape e chi sul Campo di Summonte.
Il serpente
Altra volta, uno spirito andò in sogno ad uno e gli disse dove stava il tesoro. Dovevano andare a prenderlo in quattro persone. – Ma bada – gli disse – vi uscirà innanzi un serpente tanto grosso. Vi si alzerà diritto e vi si attorciglierà alla vita; vi vorrà mangiare e urlerà come un diavolo; ma non v’impaurite, che non vi potrà far niente. Dopo che ha visto, che voi non avete paura, quello se ne va, e comincia a spicciare dalla terra tant’acqua, che vi arriverà fino in bocca. Ma voi andate innanzi; quell’acqua, a poco a poco, si ritira. Poi vi usciranno innanzi tante persone con tizzoni di fuoco, che vi vorranno bruciare; ma, se non avrete paura, quelli vi bruceranno neppure un pelo. Arrivati dentro il sotterraneo, troverete un signore. Arrivati dentro un sotterraneo, troverete un signore. Voi dovrete prenderlo di peso, in quattro, e portarlo fuori. Ma, badate. Appena che lo prenderete, quello vi parrà più leggiero d’una piuma; ma, mano a mano, che andrete verso fuori, quello si farà pesante pesante. Voi non dovete parlare. Alla muta entrerete ed alla muta uscirete, fino a che l’avrete messo a terra fuori il terrione-. E così fu fatto. Andarono quelle quattro persone; e, senza aver paura né del serpente, né dell’acqua, né dell’acqua, né del fuoco, entrarono nel sotterraneo, presero quel signore in quattro, senza dire una parola, e si avviarono per portarlo fuori. Quando lo presero, non pesava quanto una piuma; quando stavano per uscire fuori, pesava più d’una soma di grano. Uno dei quattro, se non ne poteva più, fece: – Chi t’è natu! Quantu pisi! – Non fu parola detta. Subito acqua, vento, grandine, saette… Il Signore si trovò dentro e quelli sbattuti fuori a faccia a terra.
Il sortilegio del bambino morto ed il diavolo serpente
Altri raccontano che, quando il tesoro fu là sotterrato, vi fu ucciso sopra un bambino, da pochi giorni nato, e che un altro bisogna ucciderne per ristabilire la statu quo e potersene impossessare. Nel sortilegio, che si pratica con ampollina – messa su di un tavolo nel torrione, vicino alla buca del sotterraneo – in cui, dopo trecento de profundis e altrettanti . miserere, deve entrare il diavolo sotto la forma di un grossissimo serpente, bisogna stare bene attenti a non proferire nome di salto alcuno, altrimenti si corre il rischio d’essere, di botto, sbalestrati sulla cima dei più alti monti; e, quel ch’è peggio, ignudi, in mezzo ai più folti spineti.
[…]
“Comunque si sia, cosa vera è, che gli scongiuri non fanno niente; e ci si è provati tante volte. E così quel tesoro è sempre là, in potere degli spiriti maligni. Chi sapesse fare uno scongiuro buono? A parte la celia, questo mostra che un castello, al pari di un uomo, può diventare cadavere. Basta che una superstizione lo uccida. Ed il Castello di Avella è cadavere da tempo immemorabile! Peccato!”
La leggenda di Cofroa e Bersaglia
Narra la leggenda, che, nell’anno 300 dell’era volgare, un cavaliere percorse di volo quella pianura. Le zampe ferrate del suo cavallo, nero come l’ebano, sprigionavano fasci di scintille dalla terra. Le fanciulle avellane fissarono su lui cupidi gli occhi; ma il suo cuore non ebbe un palpito per esse. Era bello e prestante, era figlio del re di Persia e si nomava Cofroa. E’ bella era la sua Bersaglia, ma di umile condizione. Il suo occhio aveva il guardar dolce della gazzella; le sue chiome bionde le scendevano intorno al collo candido come neve; la sua voce era soave, come i concenti della sua lira.
Fuggitivi della Persia, col loro schiavo favorito Eraclione, vagabondi per contrade diverse, trepidi nella gioia del presente, immemori del passato, immersi nella beatitudine d’un sogno d’oro, cercarono un nido per covare la primavera del loro amore, delle loro ebbrezze, e lo trovarono su quella collina e vi fabbricarono quel castello, che risuonò sovente di celesti accordi. Là, su quel poggio, fra lo smagliante olezzare dei fiori, fra il sorriso del cielo, fra il verde dei prati ed il canto degli uccelli, con le farfalle, fiori alati dell’aria, con la mitezza limpida del cielo, con la voluttà dei profumi, complici silenziosi delle ombrie, con la quiete serena della campagna, con la gioventù fervida degli anni, con la bellezza delle forme, intenti nell’infinita tenda cilestrina, nel palpito unisono de’ cuori a contare le stelle col numero dei baci, a narrarsi i sogni – fantasie coriose, piene di luce e di fate – a farsi soprendere dal sole nel torpore dell’alba e nello spasimo degli abbracciamenti, si amarono di quell’amore, al quale non si sopravvive.
La morte è compagna dell’amore; Bersaglia morì e Cofroa, per dimenticare quei luoghi, testimoni delle sue gioie passate e dei suoi presenti dolori, decise di far ritorno in Persia.
Di notte, mentre scendeva dal Castello, udì, fra le ombre silenti e tiepide della collina, una fioca melodia, che gli giunse per gli orecchi dell’anima. Era una voce purissima e mesta di fanciulla, che accompagnava il canto con accordi tremuli d’un’arpa, lievemente sfiorata da mano destra e leggera.
Cofroa dimenticò tutto e fece per avviarsi al luogo, dov’era la fanciulla che cantava; ma presto si avvide che era impossibile scoprirlo. Il canto pareva ora subitamente ravvicinarsi, ora lentamente allontanarsi. Cofroa avrebbe giurato, che la voce venisse di sotterra; ma s’accorgeva ch’era sopra di lui, in alto, nello spazio purissimo del cielo. Non intendeva le parole della canzone; ma sentiva in quel momento, che quella musica parlava di lui, dei suoi dolori.
Intimamente commosso e con le lagrime agli occhi, continuò a discendere; ma il cavallo, ad un tratto s’impennò. Chi era quella larva, che gli appariva dinanzi? “Bersaglia, tu adorata fanciulla, tu dunque ritorni? La morte non ti rapì?” Con un cenno ella gli troncò la voce.
Il lieve vapore, che aveva composto quella forma, si diradò, l’ombra svanì; solo una pezzuola bianca, intrisa di sangue, stava per terra. Il cavaliere la raccolse e vi lesse: – Compagni in vita, saremo compagni anche in morte -.
Cofroa ripigliò affannato il suo cammino; ma ad un punto, il cavallo traboccò e giacque morto. Il cavaliere girò gli occhi e rimase attonito; non era più medesimo luogo, la collina era sparita. Che erano tutti quei sarcofagi? Ne stava aperto uno, uno soltanto, dal quale usciva un dolce lamento. Cofroa si appressò, gittò tremedo uno sguardo entro quel sarcofago e vi cadde tramortito.
Quel sarcofago li chiude ora entrambi. Colla bocca, appoggiata a quella pezzuola, intrisa di sangue, Cofroa spirò. E per la collina s’ode ora un flebile metro di dolore. E il rosiguolo, che ora piange là, durante tutta la notte, il sogno svanito dei loro dolci amori.
Tutto questo – si dice – è favola; ma potrebbe essere anche storia. Chi lo sa!
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Valentina Guerriero