di Antonio Fusco
In qualche racconto del variopinto e polifonico mosaico che è “L’oro di Napoli”, Giuseppe Marotta riporta, a volte, i nomi di paesi dell’entroterra napoletano (Nola ,Casoria, Sparanise, Aversa, Cimitile), come indicazione geografica o luogo di cui sono originari alcuni personaggi, che si inseriscono, nelle varie trame, quali figure di secondo piano, che tuttavia definiscono meglio e completano l’ambiente di varia umanità popolana, in cui si muovono protagonisti e comprimari. Sono delle comparse, di solito presenze umili e discrete, che non riescono a scrollarsi di dosso l’etichetta di “cafoni”, come bonariamente li chiama l’autore in “A Montevergine”, adoperando un termine usato dai Napoletani per indicare quelli della provincia, che, secondo loro, si muovono con disagio ed imbarazzo in un contesto cittadino, ritenuto mentalmente più evoluto. Ci sorge il sospetto, non senza una punta di campanilistica nolanitas, che Marotta considerasse indiscriminatamente “nolani” tutti coloro che si servivano della Ferrovia Circumvesuviana.
In queste citazioni locative, l’autore mostra di avere una certa preferenza per la città di Nola, che, direttamente o di traverso, è quella menzionata più d’ogni altra.
L’ avvocato Antonio Carraturo, un “piccolo uomo di legge” di cui si parla ne “Il Cappone”, appressandosi le feste natalizie, spera che, anche per quell’anno, i Chierchia di Nola si ricorderanno di lui, recandogli i soliti capponi. Quando il nolano, quasi emulo di Renzo Tramaglino, finalmente si fa vivo per gli auguri, il nostro avvocato squattrinato, fingendo di dolersi per l’incomodo che il cliente si è voluto prendere, chiama moglie e figlie, che entrano con la tazzina di caffè e, ostentando “disinvoltura e stile” da cittadine, “sogguardano i capponi che il nolano non si decide a porgere”.
Il protagonista del brano “Scoglio a Mergellina”, è lo scugnizzo Luigi Guarracino, un ragazzo abbrutito e randagio, borseggiatore di professione, che ha “mangiato, nei quattordici anni” della sua vita, “ non solo il frutto ma l’albero, dalle radici alle foglie, l’intero albero del bene e del male”. Tra i tipi che avrebbero potuto attirare l’attenzione interessata dello svelto ladruncolo, figurano “il barone dalla giacca spalancata, la signorina dalla borsetta aperta, gli inglesi dalle valigie distratte” e “il nolano assonnato nell’atrio della stazione”.
In “Ci parlerà in dialetto”, Marotta si ricorda di quando abitava presso la chiesa di Sant’Agostino degli Scalzi, e, insieme con altri monelli, ne utilizzava sotterranei, confessionali, sacrestia e coro come campi di giochi, ai quali partecipava volentieri il giovane “converso Gennaro, un irsuto ragazzone di Nola, che non per niente era un po’ scemo”. Spesso la combriccola si spostava sui terrazzi di copertura, per estemporanee ed innocue battaglie. “Fra Gennaro era il nemico” e per armi avevano “spegnitoi, bombe di terriccio, sassolini ed urli. Ai loro assalti, sfruttando le risorse disponibili “il nolano opponeva una strenua resistenza”.
Il riferimento più noto è quello del racconto “A Montevergine”, in cui si fa la cronaca del pellegrinaggio che i guappi napoletani facevano al celebre Santuario mariano del monte Partenio, dove si venera un’antica icona della Vergine, detta “Mamma Schiavona”, perché raffigurata con un colorito bruno-olivastro, conforme agli stilemi dell’iconografia bizantina. Vi si recavano due volte l’anno, per la festa di Pentecoste e a settembre, con “calessi, landò, giardiniere, tiri a quattro e tiri a sei”, infiocchettati e trainati da cavalli “agghindati come spose”. Su questi pacchiani mezzi di trasporto prendevano posto i guappi, vistosamente abbigliati e guarniti d’oro, accompagnati dalle loro mogli, “vaste, solenni e sfarzose come cattedrali”, con il collo avvolto in giri di perle che “avrebbero potuto sbarrare Via Caracciolo”, con le orecchie che “sanguinavano straziate dai massicci pendagli” e con “le dita allargate e rigide per lo spessore degli anelli”.
A Pentecoste, sulla via del ritorno, per carrozze e proprietari c’era l’obbligo di fare una sfilata nelle strade di Nola. Con sommo piacere dei Nolani, la città diventava scenario per il “fior fiore” degli squarcioni (smargiassi), che ostentavano ricchezza e cattivo gusto. Finito il teatrale corteo, nelle trattorie di Piazza del Duomo, le più ambite dai pittoreschi e singolari pellegrini, gli “uomini d’onore”, con la loro “piccola corte”, si esibivano in pesanti motteggi canori a botta e risposta (canti a figliola) e, ovviamente, in squarcionerie, che spesso erano motivo di invidia, inimicizie, risse, coltellate e pistolettate, degenerazioni che, per ordine pubblico, portarono nel Ventennio alla soppressione della “Pentecoste nolano-partenopea.”.