di Miriam Pinchera
Fin dall’antichità l’uomo ha sempre sentito il bisogno di esplorare e conoscere, di trovare nuove soluzioni, nuovi modi di agire, nuove tecniche che potessero aiutarlo a risolvere problemi di ogni tipo. È un bisogno intrinseco alla natura umana quello che lo porta a spingersi spesso, anche al di là delle sue possibilità. Presupposto fondamentale della scienza è, per dirlo alla latina, questa curiositas, che non è da intendere come curiosità in sé ma come necessità e bisogno di capire e migliorare ciò che ci sta intorno. Col passare dei secoli e il modernizzarsi delle civiltà, fino ad arrivare ai nostri giorni, sono state fatte scoperte e sono state trovate soluzioni a problemi prima ritenuti irrisolvibili. Il caso più eclatante è sicuramente quello biomedico e scientifico che ha come priorità la vita degli esseri umani e la coesistenza tra tutti i costituenti di quell’ecosistema che permette la sopravvivenza sulla terra. Del resto, è naturale che con l’evolversi del mondo l’uomo abbia cercato di mantenere lo stesso passo, camminando parallelamente allo sviluppo tecnologico.
Attualmente, sono più che notevoli i progressi fatti in campo biomedico, che hanno portato allo sviluppo di nuove terapie per curare malattie, creare nuove forme di vita, produrre nuove forme di energia. Tutto questo è stato reso possibile grazie alla creazione delle bioteconologie, applicazioni tecnologiche che utilizzano organismi viventi o loro derivati per realizzare prodotti e processi. Lo strumento fondamentale delle biotecnologie è l’ingegneria genetica o tecnica del DNA ricombinante, che permette il trasferimento di materiale genetico tra individui di specie anche molto distante tra loro, senza andare ad alterare il genoma intero. In questo modo vengono creati gli organismi geneticamente modificati o OGM, attraverso molecole di dna artificiali o naturali. Tra i principali processi che utilizzano le biotecnologie, sono da annoverare il clonaggio e le cellule staminali. Queste ultime sono, come definito dalla neurologa Olle Lindvall, “cellule primitive non ancora dotate di specializzazione ma capaci di trasformarsi in diversi tipi di cellule del corpo con funzioni speciali”. Queste rimangono immature finché non interviene uno stimolo che le induce a differenziarsi in cellule specializzate per adempiere ad una specifica funzione. Le cellule staminali possono essere recuperate a livello embrionale e dal feto e isolando e coltivando le cellule del nodo embrionale si possono ottenere migliaia di cellule staminali, la cui caratteristica è quella di differenziarsi negli altri tipi cellulari. Esse si distinguono in base alla capacità di dare origini a diversi tipi di tessuti e cellule. Le cellule staminali, in generale, sono principalmente utilizzate, ad esempio, per la terapia a seguito di un infarto, in modo da poter riparare il muscolo cardiaco, compromesso nella sua funzionalità; più avanti si pensa di riuscire ad utilizzare queste cellule per rigenerare tessuti o interi arti del nostro corpo. Sono, inoltre, particolarmente efficaci per la terapia contro la sclerosi multipla, poiché, per eliminare l’infiammazione del sistema nervoso, si effettua una re-infusione delle cellule staminali ematopoietiche, che danno cioè origine a tutte le cellule del sangue, raccolte dal paziente stesso, necessarie alla formazione di un nuovo sistema immunitario più tollerante e meno aggressivo.
Tuttavia, il miracolo della scienza continua ad essere il clonaggio, che consente la replicazione di geni e la clonazione che duplica l’identità genetica di un individuo con un processo artificiale. La clonazione consiste nel prelevare una cellula da un organismo e aspirare il suo nucleo, che verrà poi inserito in un ovulo anch’esso enucleato. Si forma uno zigote con un corredo diploide e l’embrione viene poi coltivato in vetro per alcuni giorni e inserito nell’utero di un terzo corpo che costituisce una madre surrogata. Questo individuo che nasce è geneticamente uguale a quello che aveva donato il nucleo, è dunque un suo clone.
C’è da dire che, pur potendosi considerare un vero e proprio miracolo scientifico, che la scienza ai suoi albori non avrebbe mai pensato di poter concretizzare, la tecnica del clonaggio ha dei limiti che non sono posti dall’uomo scienziato ma dall’ uomo responsabile di quella legge universalmente conosciuta come morale. La clonazione umana, infatti, non è considerata lecita poiché rientra nell’ambito dell’utilizzo degli animali per scopo scopi benefici per l’uomo ed è, in Italia, severamente punita con la reclusione da 3 a 6 anni e una multa elevata. Il nostro paese vieta la scissione dell’embrione e il trasferimento del nucleo sia per scopo ricercativi che per scopi procreativi, secondo una propria etica che ha alla base il principio di autodeterminazione, secondo cui nessuno può decidere a priori ciò che un individuo debba essere e punisce la clonazione umana che equivale alla programmazione artificiale di un individuo.
La comunità, tuttavia, sembra essere divisa sulla clonazione a scopo terapeutico che genera in vitro embrioni umani per ottenere cellule staminali, sicuramente utili allo sviluppo di moderne terapie geniche; in questo caso gli embrioni, pur non venendo scissi e non generando un individuo, vengono sacrificati ai primi giorni di sviluppo. Ed è qui che entra in campo l’aspetto morale: se è vero che le biotecnologie sono un prodotto dell’attività umana che risponde a precise esigenze dell’uomo, devono fare i conti con una dimensione etica che agisce in modo completamente diverso dal campo scientifico. Questo è un dualismo che da sempre ha intaccato il progresso scientifico e che purtroppo resterà perché è risaputo che il progresso porta anche a qualcosa di negativo e lo spingersi troppo oltre le proprie capacità non genera mai un completo vantaggio. È giusto, quindi, porre dei limiti alla scienza, manipolare il patrimonio genetico, creare nuovi organismi? Se da un lato ciò porta alla possibilità di trovare cure a malattie ereditarie, dall’altro può provocare la creazione di agenti patogeni usati nelle guerre batteriologiche o venire meno alla dimensione etica proposta per la funzionale coesistenza tra tutti gli uomini. Si può comunque perseguire la via dell’equilibrio, secondo cui il ricercatore si propone di avanzare nelle proprie scoperte ma se queste dovessero risultare pericolose, dovrebbe applicare le proprie conoscenze per evitare i danni. D’altronde l’umanità è volta al progresso ed è giusto che le malattie vengano debellate e che si cerchi di ottenere un benessere sempre maggiore, stando attenti a non sopraffare la sicurezza fisica e morale del genere umano.