a cura di Giovanna Acierno
Il volto di Ilaria è inesorabilmente legato a quello di suo fratello Stefano, lo ricorda anche nei lineamenti. Stefano Cucchi è il giovane geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 durante la custodia cautelare decisa in seguito al suo arresto per spaccio di droga. Stefano muore mentre lo Stato lo tiene in custodia. Si ipotizza subito un malore o un suicidio ma la famiglia non cede alle pressioni e comincia la sua battaglia per conoscere la verità. Stefano muore nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini dopo sei giorni di agonia tra carcere, visite mediche, trasferimenti e un processo di convalida dell’arresto, il giorno dopo il fermo, in cui già mostra evidenti segni di malessere. Le parole sofferenti di Cucchi durante il processo per direttissima sono ormai di dominio pubblico. Le foto del corpo martoriato di Stefano (morirà pesando 37 chili), con due vertebre rotte, disidratato, disteso con il volto livido e tumefatto sul letto dell’obitorio, che la famiglia Cucchi decide di mostrare pubblicamente per allontanare il rischio di una rapida chiusura del caso per suicidio, sconvolgono l’opinione pubblica e trasformano il fatto di cronaca nera in uno dei più noti casi di cronaca giudiziaria degli ultimi anni. Sette anni di udienze e di indagini non sono serviti però ad accertare le responsabilità; nel primo processo tutti gli imputati, accusati di lesioni e non di omicidio, sono stati assolti per insufficienza di prove. Mercoledì 8 giugno, alla Corte d’assise di appello di Roma, durante il processo di appello-bis contro i cinque medici (Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo: assolti in secondo grado; sentenza poi annullata dalla Cassazione) che avrebbero dovuto prendersi cura di Stefano durante il periodo di detenzione, il procuratore generale Eugenio Rubolino ha iniziato la sua requisitoria sostenendo: “Una prima volta Stefano è stato ucciso da servitori dello Stato in divisa, si tratta solo di stabilire il colore delle divise. La seconda volta è stato ucciso dai servitori dello Stato in camice bianco”. Rubolino ha richiesto per i medici una condanna per omicidio colposo senza attenuante generica, ribaltando la sentenza assolutoria. “Vittima di tortura come Giulio Regeni — ha continuato il procuratore generale — Cucchi è stato pestato, ucciso quando era in mano dello Stato. Occorre restituire dignità a Stefano e all’intero Paese. Bisogna evitare che muoia una terza volta”. Nel settembre 2015 la Procura di Roma ha inoltre riaperto un fascicolo d’indagine sul caso confermando la tesi sostenuta anche dalla famiglia di un “violentissimo pestaggio”. Il 13 ottobre 2015 la Procura ha iscritto nel registro degli indagati quattro carabinieri oltre a Roberto Mandolini, accusato per falsa testimonianza. Le nuove iscrizioni riguardano Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco e Vincenzo Nicolardi. Per la prima volta si ipotizza il reato di lesioni aggravate avanzato contro i primi tre militari, che parteciparono alla perquisizione in casa Cucchi e al trasferimento di questi nella caserma Appia. Nicolardi, come Mandolini, è accusato di falsa testimonianza. Al momento sono dunque cinque gli indagati nella nuova inchiesta, per la prima volta tutti appartenenti all’Arma dei carabinieri. La famiglia di Stefano continua la sua lotta tra perizie contraddittorie, omissioni, attacchi feroci da parte delle istituzioni, depistaggi, minacce, rischio di prescrizione.