Ci sono voluti, cinquantasette anni dalla firma dei Trattati di Pace di Parigi, quando un presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, restituì l’onore della memoria al popolo istriano, giuliano e dalmata, perseguitato e scacciato dai propri luoghi di vita, dai partigiani di Josip Broz Tito. Poi, con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 fu istituito ” il Giorno del Ricordo ” di tutte le vittime delle foibe, perchè si portasse alla luce del sole, una tragedia per troppo tempo ignorata.
Il capo dello Stato Sergio Mattarella, nel suo discorso del 9 febbraio scorso, ha rimarcato puntigliosamente la persecuzione contro gli italiani, scatenata dai partigiani iugoslavi di Tito nelle regioni di confine, mascherata talvolta da rappresaglia per le angherie fasciste. Ma, che si risolse in una vera e propria pulizia etnica, che colpì in modo. feroce e generalizzato una popolazione inerme e incolpevole .
Ne seguì l’esodo forzato, che interessò, anche alcuni membri della famiglia ( istriana/napoletana), Bianchi – Lombardi, che fu costretta ad abbandonare Trieste, a seguito dell’occupazione dei partigiani iugoslavi, e un membro di essa che era rimasto a Capodistria, fu vittima delle Foibe.
Una discendente di questa famiglia istriana – napoletana, la Prof.ssa Anna Maria Lombardi, che oggi vive a Bonito, ci ha rilasciato una commovente storia: “io sono nata da una mamma istriana, nata a Capodistria e da un papà napoletano, che si trovava prima a Fiume e poi a Trieste per servizio, dove conobbe mia madre e quindi nel 1937 si sposarono. Mia madre di cognome Bianchi, era una famiglia già dal 1915 italianissima da sempre, il mio bisnonno era nato a Venezia e poi si era trasferito a Capodistria e la si era sposato avendo 5 figli maschi ed una femmina. I figli crebbero nell’amore della patria più puro, e quando scoppiò la guerra 15/18 partirono tutti e cinque volontari a fianco degli italiani e contro gli austriaci, il più grande aveva 24 anni, e il più piccolo 16 anni. A seguito di questa partenza, gli austriaci si rivalsero su mia nonna Anna, che fu deportata in un campo di concentramento presso Leibnitz ( Stiria ), per far pagare a lei quanto fatto da mio nonno e dai miei zii. Questa famiglia Bianchi, che specchiava di italianità, gestivano a Capodistria il famoso caffè storico della Loggia, e quando scoppiò la seconda guerra mondiale, fu presa di mira dai titini e dalla minoranza slava, che tendeva e anelava a conquistarsi tutta la penisola da Capodistria a Trieste e Gorizia. Una parte della famiglia, nel periodo tra le due guerre si era trasferita a Trieste, dove era nata mia nonna, mentre mio zio Mario Bianchi rimase a Capodistria. Il trasferimento a Trieste però non servì a molto, perchè quando il I° maggio 1945 arrivarono i partigiani iugoslavi iniziarono i cosiddetti 40 giorni di terrore. Di quel periodo, mia madre mi raccontò, che i titini erano persone terribili, mossi da un odio indescrivibile, un odio vecchio che risaliva ancora all’annessione di queste terre all’Italia, dopo la prima guerra mondiale e quindi sfociò nella peggiore maniera possibile, con rappresaglie, rastrellamenti, vendette personali e deportazioni destinazione foibe. Mio padre, che prestava servizio alla prefettura di Trieste, riuscì a farci arrivare a Venezia, dove in seguito arrivò anche lui con l’altro mio zio Menotti e con un viaggio avventuroso, arrivammo a Napoli ospiti di alcuni parenti. Mio zio Mario, nonostante le richieste di mia nonna di lasciare Capodistria e venire a Trieste dove si poteva trovare una via di scampo, volle rimanere la, sicuro della propria coscienza per non aver fatto nulla . Si salvò solo la moglie mia zia, che quando mio zio fu portato via e infoibato dagli iugoslavi , riuscì a prendere l’ultimo traghetto per Venezia, dove arrivò con le pantofole ai piedi. Invece altra sorte subì mio zio Mario che prima di essere infoibato, fu torturato, cavato gli occhi, tagliato la lingua e buttato giù con gli altri “.
Una storia triste e a tratti commovente, davanti a tante atrocità subite dalla famiglia Bianchi, prima dagli austroungarici e poi dai partigiani iugoslavi.
Carmine Martino