di Antonio Vecchione
Il barbiere era indiscutibilmente un artigiano “sui generis”. Ed anche la sua bottega aveva un che di singolare raffrontata a quelle degli artigiani di altre branche: era un luogo di raduno, di socializzazione, una sorta di circolo sociale. Solitamente, dal barbiere si andava una o (più di rado) due volte la settimana: il sabato o il mercoledì ed il sabato, ovviamente nel tardissimo pomeriggio, dopo la giornata di lavoro. I “Signori” ed i professionisti di maggior “peso sociale” si facevano servire in casa.
I barbieri, in genere figure distinte, governavano con padronanza e autorevolezza i clienti che frequentavano la bottega, che, semideserta durante il giorno, si affollava oltre ogni misura di sera. I suoi umili clienti aspettavano pazientemente prima d’essere serviti. Una ressa di personaggi in attesa del turno che, con le loro barbacce, ispide, incolte, da briganti esuli nei boschi, offrivano uno spettacolo che appariva non rassicurante. Ma era una falsa impressione. Ascoltando i loro discorsi, si cambiava opinione: era una sorta di teatro popolare, animato da semplici ed ingenui contadini che parlavano di lavoro e famiglia e, al massimo, di qualche pettegolezzo o di qualche ironica vicenda raccontata per deridere la vittima di turno. Il barbiere guidava sapientemente i loro discorsi ora nell’una ora nell’altra direzione a seconda degli umori aleggianti nell’aria e dei suoi immediati interessi; attizzava e spegneva il fuoco delle polemiche, inevitabili, e lo poteva fare grazie alla sua esperienza, al fatto di saper tutto di tutti (il lecito e l’illecito) ed alla sua supponenza, che era come la cifra della categoria e impressionava non poco soprattutto gli zappaterra ed i tagliaboschi e li consigliava di appoggiarsi a lui per ritrovarsi dalla parte della ragione quando era da dirimersi una questione che li coinvolgeva.
La bottega era costituita solitamente da un terraneo (nu vascio) più o meno scuro. Sul lato destro o sinistro, entrando, due specchi a muro (cm 60×50, poco più poco meno) senza cornice con sotto a ciascuno di essi una mensola, molto contenuta nelle dimensioni, di marmo corrente, sottile (una vera e propria striscia, quasi sempre anche sbrecciata sui bordi) e due sedie di legno miseramente pretenziose, importanti nel loro squallore, in genere vecchie e sdrucite, che conservavano il “calore” di chi vi si sedeva e lo trasmettevano al cliente successivo. Un preziosismo: nelle botteghe più … civili, il “figaro” usava porre sul sedile della “poltrona” un cuscino (sempre lo stesso per mesi), cuscino che rivoltava alla fine di ogni prestazione, proprio per attutire la citata “promiscuità termica”, non sempre olfattivamente neutra, col cliente che subentrava.
Sulla parete di fronte a quella degli specchi, quasi sempre era sistemata una nuda panca di legno o alcune annose sedie, dalla devastata impagliatura, per una … comoda attesa del proprio turno.
L’illuminazione era realizzata con lampade (una, due al massimo) da 20, 25 “candele” (30, toh !).
L’attrezzatura mobile: rasoi a mano, a lama nuda ripiegabile nel manico di osso, la cui affilatura, effettuata “alla nascita” dalla casa produttrice, veniva (si fa per dire) “rinfrescata” strofinandoli su una rozza striscia di cuoio – una specie di cintura per pantaloni abbastanza larga e lunga – posta tra i due specchi per poterli servire entrambi e fissata, per una estremità, alla parete con un chiodo. Quando “lavoravano” quei rasoi facevano rumore come fossero seghe;
tre o quattro pennelli da barba, di cui uno in buone condizioni per i clienti di “rispetto”; gli altri poco fitti e spelacchiati, i cui manici di legno, dimostravano tutti interi i loro lunghi anni di “servizio”, per le incrostazioni ormai stratificate;
il sapone, molle, bianco madreperlaceo, dal caratteristico “sentore” postribolare, era tenuto in una tazza di coccio e veniva acquistato sfuso in merceria, prelevato dal negoziante da una maggior quantità conservata –sempre, senza eccezioni- in un … pitale (si, proprio un orinale) smaltato, bianco e … nuovo;
un grosso pezzo di allume di rocca per stagnare il sangue dei frequentissimi, inevitabili tagli;
pezzi rettangolari di carta di giornale (cm 20×10, ad abundantiam) da posarci sopra schiuma e peli tirati, sradicati via senza pietà dall’ ottuso rasoio;
una bottiglietta con spruzzatore a pompetta di gomma con del liquido (a ddurina) disinfettante ( ? ) e profumato ( ?? );
panni di tela -uno o due per ogni specchio- in funzione di tovaglie, cambiati –e lavati- periodicamente, acquistati come tali o ricavati da vecchie lenzuola assottigliate dall’uso.
Era questo il negozio di barbiere (a barbarìa) del “ghetto degli umili”.
Era costume regalare, a Natale, alla “spettabile Clientela” un calendarietto tascabile (talvolta era un pieghevole multiplo con fogli, grosso modo, di circa cm 6×8) le cui pagine venivano tenute insieme da un “malioso” sottilissimo cordoncino con minuscolo intrigante fiocchetto terminale, un ambito “oggetto proibito”, profumatissimo (in genere alla “Violetta di Parma” od altra essenza anche più forte), con vignette “liberty” coloratissime e –per i tempi- scollacciatissime in cui trionfavano artefatte, gratuite, insipide nudità da casa di tolleranza di allora, di cui riproduceva pari la peccaminosa e stimolante –per l’epoca- atmosfera torbida, mirante –e ci voleva poco- ad eccitare paesani bonaccioni, alla fin fine, candidi e pur sempre, al di là di goffe, disarmanti presunzioni, gonfi di tabù.