Ha accarezzato un gatto e afferrato oggetti accorgendosi che erano soffici, rigidi, tondeggianti o squadrati, provando le stesse sensazioni che avvertiva prima dell’incidente sul lavoro in cui nel dicembre 2016 ha perso la mano sinistra. «Ho avvertito una sensazione estremamente naturale, che non provavo da due anni e mezzo», ha detto all’ANSA Loretana Puglisi, imprenditrice di Palazzolo Acreide (Siracusa), che ha perso la mano in un incidente sul lavoro. Ha potuto ritrovare il tatto grazie alla prima mano bionica capace di dare una sensazione molto vicina a quella naturale. Descritta sulla rivista Neuron, la mano hi-tech imita la ‘voce’ dei neuroni, riproducendo il coro di segnali che dai polpastrelli arriva al cervello. «È una dimostrazione di come sia possibile replicare la risposta dei recettori naturali del tatto con buon livello di fedeltà», ha detto il coordinatore della ricerca, Silvestro Micera, dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Sant’Anna e docente di Neuroingegneria translazionale del Politecnico di Losanna.
Allo studio ha partecipato anche l’Università di Friburgo e l’intervento è stato eseguito a Roma, nel Policlinico Gemelli. La donna ha sperimentato la mano per circa sei mesi a partire da giugno 2017, quando l’intervento è stato eseguito nel Policlinico gemelli di Roma, dal gruppo di Paolo Maria Rossini. «La mano bionica mi consentiva di afferrare oggetti, avvertendone le dimensioni e la consistenza senza vederli. Quando si usano le proprie mani – ha detto ancora la donna – non si fa caso a queste cose, ma il tatto permette di capire molte cose dell’oggetto, dalla forma alla durezza».
A rendere possibile una percezione così naturale è il codice che permette alla mano bionica di trasmettere ai nervi del braccio amputato tutta la varietà di percezioni che avrebbe ricevuto dai recettori del tatto. «Non siamo partiti dalla mano robotica, ma dalla sorgente dell’informazione tattile, cercando di riprodurre in modo più accurato possibile la dinamica dei neuroni nelle dita nel momento in cui una mano tocca un oggetto», ha osservato Giacomo Valle, studente di dottorato alla Scuola Sant’Anna e prima firma della pubblicazione. «Così – ha aggiunto – abbiamo trasmesso al sistema nervoso del paziente un segnale che è stato subito riconosciuto come naturale». È come se «il codice riuscisse a imitare la voce di tutti i diversi tipi di neuroni, l’intero coro di segnali che parte dai recettori che si trovano sui polpastrelli», ha rilevato un altro autore della ricerca, Alberto Mazzoni, della Sant’Anna.
Ora si guarda al futuro e «l’idea – ha rilevato Micera – è fare un passo alla volta, anche se abbastanza velocemente» con l’obiettivo ultimo di «rendere il dispositivo impiantabile in modo da permettere l’uso costante e quotidiano». Il risultato appena pubblicato, ha detto ancora, «dimostra che possiamo fare moltissimo». Il primo passo sarà eliminare i cavi, ora necessari per collegare la protesi e lo zainetto con le batterie, sostituendoli con un pacemaker, impiantato probabilmente nel torace, e una connessione wireless: in questo modo sarebbe possibile l’uso quotidiano della protesi. «Stiamo lavorando – ha detto Micera – al documento per richiedere, per il 2019, l’autorizzazione all’impianto del pacemaker. Speriamo che la sperimentazione sia possibile a partire dal 2020». Le altre due sfide, ha concluso, sono rendere più efficiente la stimolazione dei nervi periferici e sviluppare sensori tattili capaci di fornire sensazioni ancora più numerose e naturali.