di Antonio Fusco
“Una mela prima di andare a letto rende il dottore poveretto” ci segnala uno dei noti e antichi adagi che mirano ad esaltare le virtù salutari del frutto, dovute, secondo i dietologi, alle naturali proprietà che lo rendono anche prezioso per i suoi valori nutrizionali e gustoso per le caratteristiche organolettiche. In Francia, soprattutto in Normandia, serve a produrre per fermentazione un vinello leggero e molto aromatico chiamato sidro, che, a sua volta distillato, diventa calvados, una pregiata acquavite. Se, tuttavia, tralasciamo le decantate qualità anticerusiche e nutritive della mela, chiamata anche pomo, e ne analizziamo la “storia”, ci accorgiamo che ha sempre goduto di una reputazione dubbia, a causa di qualche sua amicizia poco raccomandabile, che l’ha fatta associare ad un simbolismo che richiama alla mente tentazione, trasgressione, istinti malvagi, situazioni problematiche. Quando è lucida e sana viene considerata allegoria di seduzione e di sensualità, ma se incomincia a marcire sta a significare negativi contagi morali, perché in poco tempo riesce a guastare tutte le compagne della cesta; quindi è augurabile, secondo un altro proverbio, non “cadere nella sporta delle mele marce”. Già il nome scientifico “malum” porta ad evocare inquietanti accostamenti con il termine omografo che indica il male, mentre tra i suoi simili del mondo vegetale, nasce con un marchio di ambiguità e contraffazione. Secondo i botanici è un falso frutto, e quella che noi chiamiamo polpa è in realtà un ispessimento degli organi di sostegno dell’ovario, vale a dire il vero frutto: è come se noi, oltre alla pietanza, mangiassimo il piatto che la contiene, tanto per intenderci. Lo zampino invadente della mela nelle faccende culturali e storiche umane risale “ab ovo”: gli uomini hanno sempre ritenuto che il frutto dell’albero della scienza del bene e del male sia stato una mela, addentata dai nostri sprovveduti progenitori Adamo ed Eva, i quali, disubbidendo ai voleri divini, condannarono noi poveri discendenti al triste destino di procurarci il cibo col sudore della fronte ed a venire al mondo tra lacrime e doglie. Si dice che Adamo, essendosi reso conto dell’errore commesso, sia diventato cianotico nell’inutile tentativo di rimettere il fatale boccone, che gli si fermò ostinatamente in gola, producendo la protuberanza passata in eredità a tutti i maschietti della specie umana, e che va sotto il nome di pomo d’Adamo. La complicità della mela nell’ordire l’originale trama maligna, rivela subito la sua aspirazione al protagonismo. Fu grazie all’alleanza col subdolo Serpente che, nelle vesti di rossa tentatrice, si assicurò, a danno di tutta l’umanità, un ruolo insostituibile nelle raffigurazioni, plastiche e pittoriche, che propongono la disubbidienza di Adamo ed Eva e la loro cacciata dal Paradiso terrestre. Collegata agli stessi episodi edenici, appare nell’immagine dell’Immacolata, dove, con nostro compiacimento, la sua innata ambizione viene mortificata e non fa proprio una bella figura. Nella bocca dello squamoso rettile, suo degno compare, è umiliata dal piede giustiziere della Vergine.
Nell’antica mitologia la mela è una presenza ricorrente.
Si narra che alle nozze di Peleo e Teti, i genitori di Achille, furono invitate tutte le divinità, tranne la Discordia, per non compromettere la buona riuscita dei solenni sponsali. La dea esclusa, indispettita per l’affronto ricevuto, mentre gli dei gustavano nettare ed ambrosia, lanciò sulla tavola del banchetto una mela d’oro su cui era scritto “Alla più bella”. Subito si contesero il prezioso pomo le tre dee più quotate, Giunone, Minerva e Venere, reputandosi ognuna più avvenente delle altre. Il sommo Giove, conoscendo il caratterino delle tre celesti creature, se ne lavò le mani, e fece cadere la tegola in testa a Paride, il figlio del re di Troia, assegnandogli la funzione di giudice. Il giovane, belloccio e vanesio, decise di aggiudicarla alla dea dell’amore, che gli aveva promesso la tangente più gradita: l’amore della donna più bella del mondo, che allora era Elena, già coniugata, non sappiamo se felicemente, con Menelao, il re di Sparta. Per avere come sua compagna la bella regina, il focoso troiano, aiutato da Venere, la rapì, causando, come conseguenza del suo gesto, una decennale guerra tra Greci e Troiani. Finito il conflitto, sia i reduci greci che i profughi troiani furono perseguitati da un destino così ricco di tragedie e sventure che se avessero rotto una dozzina di specchi o sterminata un’intera famigliola di gatti neri, non avrebbero avuto tanti guai. E tutto per un pomo d’oro.
Sempre nell’ambito della cultura greca la ritroviamo in due leggendari miti. La vergine Atalanta, figlia di Iasio, era una velocissima cacciatrice. Non volendo convolare a nozze, imponeva ai suoi pretendenti di gareggiare con lei in una corsa. Se avesse vinto, come sempre accadeva, li avrebbe uccisi. Ippomene, l’ultimo aspirante alla sua mano, vinse la gara con l’aiuto di Afrodite. La dea aveva dato al giovane tre mele d’oro, capaci di emanare un irresistibile fascino amoroso. Durante la gara Ippomene le fece cadere una dopo l’altra ai piedi di Atalanta e il loro fascino la indusse a fermarsi per raccoglierle, consentendo al furbo giovane di raggiungere per primo il traguardo e di ottenere, secondo i patti, la mano dell’eroina.
La dea Era per le sue nozze con Giove aveva ricevuto da Gea alcune mele d’oro e le aveva affidate alla custodia delle Esperidi nel loro giardino nella terra degli Iperborei e sotto la sorveglianza del drago Ladone. Per la sua undicesima fatica Ercole ebbe da Euristeo l’obbligo di rubarle, cosa che gli riuscì dopo aver superato vari ostacoli. I pomi aurei gli furono poi restituiti dallo stesso Euristeo, ma l’eroe a sua volta ne fece offerta ad Atena, che li ricollocò al proprio posto.
Ma la presenza della mela, non si limita solamente ai riferimenti biblici e mitologici. Nel campo dell’arte figurativa, verde, rossa o gialla, è inserita di diritto nei trionfi vegetali barocchi, sebbene le sue preferenze vadano alle piccole nature morte con frutta, in quanto può esibirsi meglio, senza troppa concorrenza; è risaputo che non ama fare la comparsa. E’ celebre il suo primo piano nel “Canestro con frutta” del Caravaggio, in cui, sebbene bacata e di seconda scelta, riesce a conseguire, a parere dei critici, la dignità di un vero capolavoro.
La ritroviamo a contendere gli sguardi ammirati degli osservatori alle forme perfette di Paolina Bonaparte, ritratta dal Canova nelle morbide e voluttuose forme classicheggianti di Venere vittoriosa, che stringe tra le mani la mitica mela di Paride.
Pur di far parlare di sé, la mela non limita il suo campo d’azione alla religione, all’arte figurativa e alla mitologia; spazia anche dalla poesia alla fiaba, dalla scienza alla leggenda, dimostrandosi una vera politicante per disinvoltura comportamentale ed esemplare opportunismo, cosa che le consente di trovare sempre un posto al sole.
Non si contano le citazioni nella poesia, nella letteratura e nelle fiabe di tutti i tempi, in cui si puntualizzano analogie tra la mela e qualche particolare anatomico o caratteriale della donna. Ritornando nell’ambito della grecità, ricordiamo la poetessa Saffo, che, per esaltare l’altera e sensuale bellezza di una fanciulla del suo Tiaso, non trova di meglio che paragonarla alla dolce mela che “rosseggia sull’alto ramo, alta sul più alto ramo; i coglitori certo se ne dimenticarono; non se ne dimenticarono in verità, ma non potevano raggiungerla….”.
La matrigna di Biancaneve, Grimilde, collocata dallo specchio magico sempre al secondo posto nella graduatoria delle più belle del Reame, perché il primo era occupato stabilmente dalla detestata figliastra, decise di avvelenarla con un frutto opportunamente trattato. Avrebbe potuto scegliere una succosa arancia, una pesca vellutata, delle fragole fragranti; invece no. La sua preferenza andò, senza pensarci troppo, alla rossa mela: similis cum similibus. La perfida donna si presentò alla casa dei sette nani e tanto disse e tanto fece che la convinse ad assaggiare il frutto avvelenato. La povera Biancaneve, senza impallidire troppo, in quanto era già geneticamente bianca, ebbe appena il tempo di portare le mani alla gola e di strabuzzare gli occhi, che cadde supina distesa, in catalessi. Fortunatamente nelle fiabe compaiono al momento opportuno, cavalcando albini destrieri, i principi azzurri specializzati a risvegliare le belle addormentate. Con l’intervento del nobile giovane, che liberò l’anemica fanciulla dal tossico boccone, la fiaba trovò il suo lieto epilogo. Biancaneve, uscita dal coma, capì che il rampollo reale era un ottimo partito e fece un matrimonio principesco con i relativi diuturni festeggiamenti, durante i quali tutti gli umili del Reame ebbero l’occasione rara di abbuffarsi.
Per il suo smodato desiderio di mettersi in mostra si farebbe letteralmente spaccare in due, come fece nelle asettiche contrade elvetiche. La leggenda ci narra che nel secolo XV il prepotente balivo Ermanno Gessler ordinò ai cittadini di Altdorf di inchinarsi davanti ad un suo copricapo. L’arciere Guglielmo Tell si rifiutò di assecondare l’ordine umiliante e perciò fu condannato a colpire con un dardo una mela posta sulla testa di suo figlio. Superata la prova, Tell fece passare a miglior vita il protervo tiranno, spingendo i contadini elvetici alla rivolta che diede origine all’indipendenza della Svizzera.
Nella seconda metà del ‘700 partecipò al progresso scientifico, ma lo fece in modo maldestro: staccandosi dal natio ramo centrò in pieno la razionale cervice di Isacco Newton, il quale, in verità, non le serbò rancore per il bernoccolo prodotto, anzi le fu grato perché gli fece balenare l’idea della gravitazione universale, che gli diede fama imperitura tra i cervelli quadrati.
La mela è riuscita a sfruttare, a vantaggio della sua imperitura notorietà, la mentalità godereccia e decadente della moderna società occidentale, tanto da far definire la città di New York “big apple”, la grande mela, per la promiscuità anticonformista e spregiudicata della cosmopolita metropoli statunitense.
Attualmente la sua immagine provocatoria e disinibita, intera o mordicchiata, appare su computer, magliette, quaderni, diari scolastici, periodici, titoli di film. In televisione è una presenza continua: identifica rubriche, reclamizza dentifrici e spazzolini che rendono denti smaglianti e gengive di ferro, tesse le lodi di un adesivo per dentiere, esibite da sorridenti e arzilli vecchietti, promette capelli serici in uno shampoo verdastro.
Da qualche tempo, non sappiamo se per la solita smania di farsi notare o per qualche occulta ed imprevedibile motivazione, la signora mela mostra segni di italico provincialismo filoanglofono. Dal fruttivendolo, col suo bravo bollino, si fa chiamare Golden, Jonathan o Green Smith, imitando l’ordinarietà delle nostre Rosette e Giuseppine, che odiano il loro certificato di nascita solo perché non le registra col nome di Rosy e Giusy. Forse la mela vuole semplicemente tentare, alla pari di molti “parvenu”, di far dimenticare le sue origini e le georgiche ascendenze parentali, servendosi anche dei mascheramenti linguistici. Noi però le conosciamo benissimo le sue antenate: si chiamavano melelle, mele zitelle, renette, e limoncelle. (Riedizione).
Antonio Fusco