di Antonio Vecchione
Visto con gli occhi –e con la mente- di adesso, il mondo che ci siamo lasciato alle spalle non era per niente idilliaco. Era, si, semplice, perfino elementare ma, al tempo stesso, pieno di tabù, irto di ostacoli, di separazioni, di compartimenti stagni.
Le donne in particolare, pativano una separatezza speciale, aggiuntiva, caratteristica del loro sesso, forse non di origine ma imposta e sedimentatasi nei secoli. Una separatezza già allora dura da accettare e che oggi, ove si manifestasse ancora, potremmo definire anacronistica e senz’altro ingiuriosa.
Nonostante s’impegnassero come e più degli uomini in fatiche esterne gravose, sfiancanti, esse non erano affatto esentate dai non meno gravosi e sfiancanti obblighi lavorativi richiesti all’interno delle case dal menage familiare; questi ultimi pesavano quasi per intero sulle loro “muliebri” spalle, ed il “quasi” potrebbe anche essere, nove volte su dieci, sostituito con un “solo”.
Esse, oltre a collaborare in tutti i lavori dei campi -non escluso, si badi, lo “zappare”- e ad accudire le famiglie, avevano alcune vere e proprie “specializzazioni” che praticavano e che talora ingombravano fuori d’ogni misura le loro interminabili giornate.
Una delle incombenze squisitamente femminile era la cura completa, con adesioni molto spesso quasi umane, degli animali domestici: in primo luogo far loro da mangiare.
A questo fine, quando la stagione lo permetteva –in genere da maggio all’autunno- le donne si recavano, prima dell’alba, nelle terre di pianura o in montagna per tagliare erbe dai nomi oscuri, impronunziabili e sulla cui ortografia non osiamo giurare come: larciano, quarciello, dolleche, ecc. e che, però, erano cibo ideale per le mucche. D’inverno, invece, queste le si nutriva con il seccume (“a seccumma”) ossia un misto di erbe e steli di granturco messi avvedutamente ad essiccare al tempo giusto e conservati in covoni.
Quando poi era possibile (un “possibile” di squisita intonazione “economica”) si comprava la crusca (“a vrenna”) o si preparava per loro un pastone (o pàsto) lessando mele, rape, rapeste e patate oppure foglie di pioppo e patate.
Importante: prima di mangiare, la mucca doveva essere munta.
Le buone “vacche da latte” ne potevano fornire dai 14 ai 15 litri giornalieri; latte che, sempre le donne –specie le ragazzotte- recavano a domicilio ai clienti fissi ed anche, quando era possibile, a quelli occasionali.
Altre specializzazioni erano:
“e ccirasare” (le “donne delle ciliegie”). Le famiglie –ed erano moltissime- che non possedevano terreni, né di proprietà né in fitto, mandavano regolarmente le loro donne “a ffa e cirase” (“a fare le ciliegie”), vale a dire a lavorare nelle aziende che trattavano la conservazione, mediante solforazione, delle ciliegie, frutto copioso e di qualità delle nostre campagne. Brevemente: le ciliegie, appena colte, venivano trattate con anidride solforosa, sciacquate, snocciolate (operazione, ovviamente, delicatissima effettuabile solo da delicate mani femminili con appositi, minuscoli, particolarissimi “scavini” di ottone, con corto manico in legno, costruiti quasi esclusivamente da un geniale artigiano baianese “mastu Stefene o ferraro” al secolo Stefano Colucci, Fabbro (con la maiuscola, vero “masto e forgia”, degno erede e continuatore dell’insuperata perizia del suo mitico maestro Stefano Vecchione, nonno di uno degli autori), operaio specializzato al Silurificio di Baia (NA) della Marina Militare Italiana, tornitore, attrezzista, meccanico aggiustatore, ideatore di piccoli congegni. Uomo limpido, delicato, visse da scapolo –con la vecchia madre- fino in età tarda –per l’epoca- e poi si sposò. Solitario, difficile di carattere, sciolto di lingua, acuto di pensiero e … crediamo si sia capito che ne pensiamo bene. I frutti snocciolati venivano, quindi, posti in botti o, in epoca più recente, in fusti di plastica, immersi in una soluzione acquosa ancora di anidride solforosa. Le condizioni di lavoro delle “cirasare” erano proibitive: quelle ragazzine, giovanette, donne mature ed anche anziane vivevano praticamente con mani e piedi in una soluzione di acqua e acido e, per di più, respiravano la permanente, densa atmosfera con altissimo tasso di umidità … solforosa da essa generata; i miasmi, propri dell’acido, dannosissimi ed insopportabili, le sbiancavano come fossero, a loro volta, ciliegie e ne minavano gravemente la salute. Lavoravano, in quelle condizioni, anche dodici ore al giorno e poi, a turno, di sera dovevano restare a pulire e sistemare gli attrezzi, i recipienti, i banchi di lavoro. Chi pensava a loro o, solo, le compativa? Nessuno! Tanto meno i loro datori di lavoro che (salvo rare eccezioni) potevano essere considerati alla stregua di veri e propri aguzzini, senza, peraltro, che la cosa li turbasse più di tanto e facesse loro quanto meno rinunziare a tentare –con sistematica, vergognosa, squallida pervicacia- di ottenere, con facili ricatti, da esse prestazioni extra … indecenti. Le donne, costrette ad accettare, per ragioni “vitali” (si fa per dire) le condizioni di lavoro imposte si sfogavano con il canto di stornelli che erano delle vere e proprie invettive del tipo di:
“chi fatica pe donna Cuncetta:
a matina e notte e notte,
o juorno e trott e trotte,
a sera a tre ore e notte”
cioè : “(per) chi lavora per donna Concetta/al mattino (quando è ancora) notte, notte/(durante) il giorno (di) trotto, trotto/la sera a tre ore di notte (quando è oramai notte e tutti i prestatori d’opera son gia da tempo a casa).
“e femmene e muntagna” (“le donne di montagna”). Molte donne preferivano, invece, andare a lavorare nel bosco Arciano, organizzate in squadre agli ordini di una “caporala” e/o di una “sotto caporala”, a trasportare, sulla testa (come abbiamo descritto in altro paragrafo del volume) fascine di legna per le “carcare” oppure a trascinare tronchi, ricavati dai “tagli”, quando non si potevano usare altri mezzi per trasferirli a valle. Le squadre erano costituite, ciascuna, da venti o trenta donne. E’ ancora vegeta una di esse, “Vergilia” Napolitano, moglie di “Gennarino o Camillo” , un uomo di bassa statura, viso largo, capelli ispidi e riccioluti, occhi grandi, sguardo duro –ma solo in apparenza- e penetrante, incarnato olivastro, corpo asciutto, gambe da cavalcatore di asini: sembrava un “tigrotto della Malesia” di salgariana memoria, specie quando, da bonario, sincero fanatico di Santo Stefano, con una giacca di fustagno, delle pesanti uose sugli scarponi, un copricapo di finta pelliccia, la carabina ed il corno della polvere da sparo si recava alle “Messe e notte” natalizie, al taglio ed alla processione del “Maio” e al “Fucarone”. Essa ci ha raccontato come, d’estate, le componenti la squadra si radunassero all’una di notte per giungere all’alba nel bosco Arciano dove restavano a duramente lavorare fino alle dieci del mattino. Per darsi coraggio, per non sentirsi abbandonate, erano solite cantare per tutto il tragitto fino al posto di lavoro. Logicamente, i primi canti (quelli dell’una di notte) disturbavano il sonno dei “signori” dei “Vesuni” i quali spesso se ne lamentavano con le autorità. Tanto che i Carabinieri ingiunsero alla meschine di attraversare il paese in silenzio. Inutilmente. Perché le donne non obbedirono: troppo importante era quel canto per il loro equilibrio psichico, per sentirsi vive e per assicurarsi la reciproca solidarietà. Ci piace precisare che normalmente il ruolo di “sotto caporala” (indispensabile, ogni qualvolta c’era) individuava una donna che, al contrario della “caporala” ed in sua vece, sapeva leggere, scrivere e far di conto per cui era “la mente”, l’amministrativa dell’organizzazione: segnava le presenze, gl’incassi, le paghe, le quantità, le qualità, … tutto. Se non lavoravano per la “Caporala”, le popolane, allo scopo di raggranellare qualcosa per aiutare le magre finanze familiari, erano solite recarsi nel bosco Demanio (Arciano) per “legnatico” o “macchiatico”.
Il grado di rassegnazione e di accettazione del proprio ruolo e delle gerarchie sociali da parte delle donne, è molto ben rappresentato da un “detto” molto comune, all’epoca:
“Maronna mia fa sta bbuone e signure ca e puverielle vann Arciano” (“Madonna mia fa star bene i signori che i poveri vanno (ad) Arciano” cioè hanno la risorsa del bosco Arciano).
Le donne erano sempre sotto osservazione: dal momento dello sposalizio e della constatazione delle sua “purezza”, per motivi diversi ma nella fattispecie convergenti, la famiglia della sposa, quella dello sposo ed il … paese contavano con trepidazione i giorni nell’attesa di appurare se la giovane moglie era rimasta incinta (“prena” ): orgoglio femminile, vigoria maschile, utilitarismo e pettegolezzo i … “motori di ricerca”, tanto per stare ai tempi che corrono.
Una “vammana” o “mammana” (“ostetrica”) oppure, perché no, una “vammanona” o “mammanona” (comare faccendona) seguiva la donna per l’intera durata della gravidanza e del puerperio –ordinariamente, quest’ultimo, molto breve- e assisteva al parto: la si pagava (in qualche modo) alla fine ossia al battesimo della creatura.
Rivolgersi ad un medico per le proprie necessità di gestante era, innanzitutto, chiaramente e semplicemente … sconveniente (sic).
Lo era, altresì, anche perché indicativo –a torto od a ragione- di difficoltà gravi che, anche se ipotizzabili, non dovevano essere rassegnate al … pubblico se non quando fosse stato impossibile ulteriormente nasconderle o minimizzarle.
Infine: perché maleaugurante, iettatorio.
Lo stesso valeva per l’eventuale idea di voler partorire non in casa ma in ospedale (una clinica privata ? lo stesso pregiudizio, per elegante e costosa che fosse).
“S’è aunita a malasciorta e a figlia femmena” (s’è unita –si sono sommate- la malasorte e la figlia femmina): era l’espressione del massimo della sfortuna: in genere lo è ancora.
Infatti: la nascita di una bambina nelle famiglie era sempre accettata con … tanta … rassegnazione.
E’ classica la risposta del neo-padre e dei suoi familiari quando si chiedeva loro dell’esito del parto: “ca ffatto, neh ?” “o masculo !, o masculo !” e giù risate, frizzi, gioia incontenibile e anticipazioni, anche se non richieste sul nome che avrebbe avuto il neonato: “se chiamma cumm o nonno” “maritemo ha avuta a supponta” (mio marito ha avuto il sostegno, il puntello, colui che ne perpetuerà il nome) e via così continuando.
Se, invece le cose erano andate … diversamente la risposta era moscia, strascicata, riluttante: “a femmena. Che vulite fa. Cumm ha vuluto o Signore. Chill e figlie so tutte figlie. Abbasta che a mamma e a criatura stanno bbone: l’interessato o gli interessati sentivano quasi di doversi scusare col loro prossimo !
Non dimentichiamo che all’epoca vigeva ancora in pieno il precetto paolino, dalla “Prima lettera ai Corinzi” (14, 34) “Mulieres in Ecclesiis taceant…” (“Le donne nelle assemblee tacciano …” , ed in prosieguo: “… se vogliono imparere qualcosa interroghino a casa i loro mariti perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea”).
I nostri antichi erano convinti della vitale e totale dipendenza della donna (altro che peccato d’origine !) dal sesso, dal matrimonio, dalla ricerca di un uomo, da un destino, cioè, del tutto iniquo che, nondimeno, al tempo stesso la schiacciava e la esaltava: con naturale gioco, la faceva schiava e regina.
Questa amara generale convinzione è esemplarmente illustrata dai due significativi casi che riportiamo qui di seguito:
le “comari più esperte della vita” (“e sse maeste) usavano, per buonn augurio, versare un cucchiaino di zucchero nel sesso della neonata;
la mamma di uno degli autori ricorda che, prima degli anni ’40, una vecchia nonna, fece, apertis verbis, il seguente augurio ad una sua nipotina appena nata: “si a fa a zoccola è meglio che muori” (“se dovrai fare la prostituta, la sgualdrina è meglio che muori”).
E non possiamo, a questo punto non far notare che il concetto di sgualdrina (“zoccola”) è oggi ben più … elastico che non allora quando le donne, tutte indistintamente:
non avevano alcun ruolo pubblico (come si dice: voce in capitolo);
erano costantemente sottoposte al giudizio morale, anzi moralistico fin dell’ultimo esemplare della “fauna” maschile;
non avevano circoli ricreativi od altre associazioni se non quelle religiose, la cui unica attività era la “Messa sociale domenicale” e le “funzioni vespertine” (che diventavano, così, di fatto i loro unici svaghi), le processioni ed i funerali (di donne e solo se la morta era una “consorella”;
non era loro consentito andare in giro da sole né passeggiare da sole: l’ombra del sospetto era lì in agguato;
e guai seri si prospettavano per colei che fosse stata sorpresa, anche da sola, nella zona buia di una strada o nella penombra di un portone: perché ? si chiedeva l’opinione pubblica !
Come si vede una sorta di “regime talebano avanti lettera”, alleggerito quanto si vuole ma sempre tale.
Ed eravamo nel secondo millennio !
Ed ora siamo nel terzo !
Quando, e capitava spesso, una madre non era in grado di allattare la propria creatura, l’affidava ad una “nutriccia” (nutrice) o “mamma e latte” (madre di latte), vale a dire ad un’altra donna cui la natura aveva donato un “seno florido”, capace, intendiamo, di una cospicua produzione di latte tanto da poter soddisfare non solo il suo bambino ma anche … un pargolo ospite ( ! ). Abbiamo usato l’aggettivo “florido” a ragion veduta, per uniformarci, cioè, allo stereotipo di nutrice invalso da secoli nell’immaginario comune: una donna “in carne”, opulenta, gioviale, di ottimo appetito e calma olimpica, che non disdegna mai un bicchiere (uno !) di buon vino o una risata sonora, magari ispirata da una battuta di non esemplare castigatezza; di carnagione chiara, rosea, fino al rubizzo, vestita generalmente con ampie gonne e con camicette di cotone, bianche immacolate con colletto da collegiale, funzionalmente aperte sul davanti.
A Baiano di siffatte donne (note agli stessi autori) ve n’erano parecchie: una, in particolare, era una vera e propria “mucca” o, se si vuole, “capra”, nel senso che vendeva, a chiunque glielo richiedesse, il proprio latte, anche “a bottigliette” … da asporto !
Si trattava, in genere, di “campagnole” paesane ma “su piazza” ve n’erano anche di provenienti da fuori zona, specialmente dall’Alta Irpinia.
Si verificava così, assieme a quello delle “mamme e latte” (che spesso ricevevano un regolare compenso per le loro … forniture), il fenomeno dei “figli e figlie e latte” (figli e figlie di latte), “frate e sore e latte” (fratelli e sorelle di latte): una sorta di parentela sentita e rispettata dagli interessati (anche dalle loro famiglie) come quella di sangue.