di Armando Sodano
L’architetto dell’anfiteatro conosceva molto bene la geometria, la matematica, la topografica, la logistica, la contabilità, e certamente era un esperto nella tecnica del disegno (così racconterà, dopo qualche anno, Vitruvio nel descrivere la figura del bravo architetto nel suo De Architectura), tanto da saper rappresentare l’opera da realizzare non soltanto con piante e prospetti, ma anche attraverso “prospettive” colorate, per dare al committente “l’impressione” dell’opera finita. Peccato che di questi lavori preparatori ci sia arrivato ben poco, quasi nulla, tranne qualche testimonianza in ritagli di dipinti murali e mosaici, o qualche descrizione scritta in rari testi. Lo stesso Vitruvio, il maggior documentarista sull’architettura antica, non è abbastanza esaustivo sull’argomento. Così dell’anfiteatro di Abella, e di tutti gli altri, nessuno, né ieri e né oggi, ha avuto il privilegio di poterne osservare gli schemi, le formule, le immagini disegnate. Un privilegio che anche allora era concesso a pochi, essendo lui, l’architetto, un uomo di cultura e di ingegno, ricercato e benestante abbastanza per non doverlo fare per necessità, e forse semplicemente per riscattare il suo stato di uomo, “libero” di salire la scala sociale attraverso la grandezza e bellezza della sua arte. Così si era presentato, richiesto e ammirato, preceduto dalla sua fama, qui in Abella, crocevia di popoli, terra di mezzo, popolosa e ricca abbastanza da poterci costruire un’opera maestosa che lo avrebbe appagato e glorificato più di ogni altra cosa. Ed era anche quello che desiderava colui che lo aveva chiamato, uomo potente e ricco, cittadino e fiduciario di Roma, desideroso e ambizioso di arrivare sempre più in alto nella scala del potere. Ma i tempi erano stretti e bisognava fare in fretta. Nella poco lontana Capua il maestoso anfiteatro era già da un pezzo completato e la fama dei giochi, con i suoi possenti gladiatori, aveva già contagiato Roma. Nella più vicina Pompei le basi del suo anfiteatro erano già complete, mentre il podio già si ergeva alto a delimitare l’arena. Persino Nola, la rivale di sempre, tanto vicina e tanto odiata, ne aveva annunciato la sua costruzione. Perciò non c’era più tempo da perdere, bisognava procedere quanto prima e con celerità. Così lui ci stava rimuginando su: mica doveva per forza accettare quell’incarico? La tentazione a rinunciare già c’era stata prima, dopo le visite a quei due anfiteatri, e a quei pochi altri più lontani, che lo avevano tanto impressionato: c’era veramente tanto lavoro da fare per tirare su quelle strutture così imponenti. Imponenti, ma non nella bellezza, per lo meno quella bellezza alla quale lui, amante dell’estetica, profondo conoscitore di matematica e geometria, aspirava: eleganza, proporzioni e armonia delle forme, a partire dall’arena, fulcro di ogni cosa, dagli spettacolari combattimenti alle geometrie strutturali. Anche se la soluzione ce l’aveva per realizzare il suo anfiteatro in un sito di tanta bellezza naturale, i tempi erano comunque stretti per poterlo fare con quel processo lungo, fatto di traiettorie da tracciare confluenti in un unico tracciato dal quale si sarebbe innalzato il podio definendo un ovale perfetto. Ovale perfetto, non una linea semplicemente curvata fissando centri in più punti dell’asse, come aveva visto fare in quegli altri anfiteatri, ma l’ellisse quindi, l’unica geometria curva, a parte il cerchio (poco adatto agli scopi quali gli anfiteatri erano destinati) che gli avrebbe consentito di raggiungere un equilibrio formale in una struttura così grande e complessa. Ma lui sapeva anche, da matematico, disegnatore esperto e misuratore quale era, che per tracciarla sul campo era un lavoro lungo e complesso, che avrebbe sottratto buona parte del tempo rimasto. Rinunciare all’ellisse per anticipare i tempi e le consegne? Piuttosto rinuncio all’incarico! Pensava tra sé e sé. Ci pensava sin da quel giorno che aveva presentato il suo anfiteatro al ricco e potente committente, disegnandolo con tratti rapidi e precisi, tramite un lungo bastone di duro nocciolo selvatico appuntito in avanti, nella sabbia grigia e ferrosa, raccolta ai margini del fiume vicino, stesa umida, compatta e finissima, sul pavimento di pietre nella parte più luminosa dell’atrio della domus del nobile romano. E ci stava pensando anche per tutta quella notte, finché non gli apparve, nel primo sonno, dopo quello stato ansioso in cui era caduto, suo padre, suo primo maestro di vita e di studi, mentre gli veniva incontro tenendo in una mano due bastoncini diritti appuntiti, legati rispettivamente ai due estremi di una piccola corda sottile di intreccio di canapa, e nell’altra un terzo bastoncino anch’esso appuntito in un estremo. Così, quella visione, nel sonno, gli fece ricordare di quel gioco, che lo aveva tanto incuriosito e che il padre aveva utilizzato per insegnargli come in realtà era così semplice disegnare un ovale perfetto, cioè l’ellisse, senza perdersi in tanti cerchi e mille linee. Si svegliò di sobbalzo pensando a quel gioco e corse d’impeto a raccogliere un rametto liscio e dritto per tagliarlo in tre parti. Ne legò due alle estremità del laccio, che aveva sfilato da uno dei suoi sandali, e stendendolo, l’uno nella direzione opposta dell’altro, li appuntò così distanziati nel suolo umido, indurito dal freddo della notte. Poi ne estrasse uno per avvicinarlo all’altro di circa un quarto di quella distanza. Prese il terzo bastoncino, lo appoggiò al laccio tirandolo fino a stenderlo e facendolo scorrere lungo di esso, in modo da tenerlo sempre teso, da un’estremità dell’asse, sul quale erano allineati i due bastoncini fissi al suolo, fino ad arrivare all’altra. Fece lo stesso nel verso e sul piano opposto. Eccolo apparire l’ovale perfetto, l’ellisse, in un solco nerissimo dai bordi d’argento, illuminato dalla luna in quella fredda notte “abellana”(*) .
(*) Di Abella, antica città della Campania, oggi Avella.notte “abellana” di tanto tempo fa.
L’architetto dell’anfiteatro conosceva molto bene la geometria, la matematica, la topografica, la logistica, la contabilità, e certamente era un esperto nella tecnica del disegno (così racconterà, dopo qualche anno, Vitruvio nel descrivere la figura del bravo architetto nel suo De Architectura), tanto da saper rappresentare l’opera da realizzare non soltanto con piante e prospetti, ma anche attraverso “prospettive” colorate, per dare al committente “l’impressione” dell’opera finita. Peccato che di questi lavori preparatori ci sia arrivato ben poco, quasi nulla, tranne qualche testimonianza in ritagli di dipinti murali e mosaici, o qualche descrizione scritta in rari testi. Lo stesso Vitruvio, il maggior documentarista sull’architettura antica, non è abbastanza esaustivo sull’argomento. Così dell’anfiteatro di Abella, e di tutti gli altri, nessuno, né ieri e né oggi, ha avuto il privilegio di poterne osservare gli schemi, le formule, le immagini disegnate. Un privilegio che anche allora era concesso a pochi, essendo lui, l’architetto, un uomo di cultura e di ingegno, ricercato e benestante abbastanza per non doverlo fare per necessità, e forse semplicemente per riscattare il suo stato di uomo, “libero” di salire la scala sociale attraverso la grandezza e bellezza della sua arte. Così si era presentato, richiesto e ammirato, preceduto dalla sua fama, qui in Abella, crocevia di popoli, terra di mezzo, popolosa e ricca abbastanza da poterci costruire un’opera maestosa che lo avrebbe appagato e glorificato più di ogni altra cosa. Ed era anche quello che desiderava colui che lo aveva chiamato, uomo potente e ricco, cittadino e fiduciario di Roma, desideroso e ambizioso di arrivare sempre più in alto nella scala del potere. Ma i tempi erano stretti e bisognava fare in fretta. Nella poco lontana Capua il maestoso anfiteatro era già da un pezzo completato e la fama dei giochi, con i suoi possenti gladiatori, aveva già contagiato Roma. Nella più vicina Pompei le basi del suo anfiteatro erano già complete, mentre il podio già si ergeva alto a delimitare l’arena. Persino Nola, la rivale di sempre, tanto vicina e tanto odiata, ne aveva annunciato la sua costruzione. Perciò non c’era più tempo da perdere, bisognava procedere quanto prima e con celerità. Così lui ci stava rimuginando su: mica doveva per forza accettare quell’incarico? La tentazione a rinunciare già c’era stata prima, dopo le visite a quei due anfiteatri, e a quei pochi altri più lontani, che lo avevano tanto impressionato: c’era veramente tanto lavoro da fare per tirare su quelle strutture così imponenti. Imponenti, ma non nella bellezza, per lo meno quella bellezza alla quale lui, amante dell’estetica, profondo conoscitore di matematica e geometria, aspirava: eleganza, proporzioni e armonia delle forme, a partire dall’arena, fulcro di ogni cosa, dagli spettacolari combattimenti alle geometrie strutturali. Anche se la soluzione ce l’aveva per realizzare il suo anfiteatro in un sito di tanta bellezza naturale, i tempi erano comunque stretti per poterlo fare con quel processo lungo, fatto di traiettorie da tracciare confluenti in un unico tracciato dal quale si sarebbe innalzato il podio definendo un ovale perfetto. Ovale perfetto, non una linea semplicemente curvata fissando centri in più punti dell’asse, come aveva visto fare in quegli altri anfiteatri, ma l’ellisse quindi, l’unica geometria curva, a parte il cerchio (poco adatto agli scopi quali gli anfiteatri erano destinati) che gli avrebbe consentito di raggiungere un equilibrio formale in una struttura così grande e complessa. Ma lui sapeva anche, da matematico, disegnatore esperto e misuratore quale era, che per tracciarla sul campo era un lavoro lungo e complesso, che avrebbe sottratto buona parte del tempo rimasto. Rinunciare all’ellisse per anticipare i tempi e le consegne? Piuttosto rinuncio all’incarico! Pensava tra sé e sé. Ci pensava sin da quel giorno che aveva presentato il suo anfiteatro al ricco e potente committente, disegnandolo con tratti rapidi e precisi, tramite un lungo bastone di duro nocciolo selvatico appuntito in avanti, nella sabbia grigia e ferrosa, raccolta ai margini del fiume vicino, stesa umida, compatta e finissima, sul pavimento di pietre nella parte più luminosa dell’atrio della domus del nobile romano. E ci stava pensando anche per tutta quella notte, finché non gli apparve, nel primo sonno, dopo quello stato ansioso in cui era caduto, suo padre, suo primo maestro di vita e di studi, mentre gli veniva incontro tenendo in una mano due bastoncini diritti appuntiti, legati rispettivamente ai due estremi di una piccola corda sottile di intreccio di canapa, e nell’altra un terzo bastoncino anch’esso appuntito in un estremo. Così, quella visione, nel sonno, gli fece ricordare di quel gioco, che lo aveva tanto incuriosito e che il padre aveva utilizzato per insegnargli come in realtà era così semplice disegnare un ovale perfetto, cioè l’ellisse, senza perdersi in tanti cerchi e mille linee. Si svegliò di sobbalzo pensando a quel gioco e corse d’impeto a raccogliere un rametto liscio e dritto per tagliarlo in tre parti. Ne legò due alle estremità del laccio, che aveva sfilato da uno dei suoi sandali, e stendendolo, l’uno nella direzione opposta dell’altro, li appuntò così distanziati nel suolo umido, indurito dal freddo della notte. Poi ne estrasse uno per avvicinarlo all’altro di circa un quarto di quella distanza. Prese il terzo bastoncino, lo appoggiò al laccio tirandolo fino a stenderlo e facendolo scorrere lungo di esso, in modo da tenerlo sempre teso, da un’estremità dell’asse, sul quale erano allineati i due bastoncini fissi al suolo, fino ad arrivare all’altra. Fece lo stesso nel verso e sul piano opposto. Eccolo apparire l’ovale perfetto, l’ellisse, in un solco nerissimo dai bordi d’argento, illuminato dalla luna in quella fredda notte “abellana”(*) .
(*) Di Abella, antica città della Campania, oggi Avella. Qu