L’INFINITO – LA POETICA DI GIACOMO LEOPARDI

L’INFINITO   LA POETICA DI GIACOMO LEOPARDI

di Sebastiano Gaglione

La poesia “L’infinito“ fu composta da Leopardi tra il 1818 ed il 1821, durante l’età giovanile. Il vero protagonista indiscusso di questo idillio è il Monte Tabor, a Recanati, che rappresenta per il poeta una fonte inesauribile di riflessioni e beata quiete, da cui la mente trae un assoluto beneficio. Da questo “caro ermo colle“, infatti, Leopardi era solito rifugiarsi; in certo senso, essa rappresentava per lui un luogo di evasione che gli permette di “andare oltre“, immergersi in una sorta di “avventura dell’animo“ che nasce da un’esperienza concreta: l’infinito. L’infinito che può essere diviso in due parti: la prima comunica un senso di inquietudine (sovrumani silenzi, il cor non si spaura ecc.) mentre la seconda comunica un senso di appagante dolcezza (sempre caro, profondissima quiete, il naufragar m’è dolce in questo mar). Questa visione dell’infinito, effettivamente, viene “generata“, in un certo senso, da una siepe che impedisce al poeta di vedere il paesaggio circostante, immaginando così, uno spazio immenso: di conseguenza è proprio l’immaginazione a diventare la madre dell’infinito che, insieme all’eterno, sconvolgono letteralmente il poeta e la sua mente, attraverso la sensazione dolorosa e dolce al tempo stesso (in  tutto ciò consiste il concetto di duplice infinito) di affondare e di perdersi. L’infinito è la dimostrazione di come sia “grande“ la mente umana che pur così limitata, riesce ad intendere l’intero universo, senza dimensione e senza confini. Nella prima parte del testo prevalgono maggiormente i dati visivi, mentre nella seconda parte a prevalere, sono i dati uditivi, come il rumore del vento, che suscita un nuovo slancio verso l’infinito e un nuovo movimento dell’anima: la dolcezza, il rilassamento dell’abbandonarsi completamente ad esso. In definitiva, l’esperienza di questo canto dona all’uomo l’illusione del piacere infinito cui esso aspira (utilizzando la potenza dell’immaginazione).“L’infinito“ di Leopardi, quindi, può essere considerata, a tutti gli effetti, una poesia consolatrice: essa, infatti, consola l’uomo, in quanto non potrà mai e poi mai raggiungere quello che è il tanto agognato piacere infinito.

Infine, sono presenti nel testo diverse figure retoriche:

  • Anafore (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”);
  • Enjambements (“Indeterminati spazi“, “sovrumani silenzi“);
  • Iperbole (“indeterminati“, “sovrumani“, “profondissima“);
  • Antitesi (“Questa siepe… quella”, “Quello infinito silenzio a questa voce”, “Morte stagioni… viva”);
  • Onomatopea (“Stormir”);
  • Metafora (“S’annega… il naufragar m’è dolce in questo mare”).