di Gianni Amodeo
Il giorno dopo, con la città sotto shock , per l’arresto del sindaco Antonio Carpino, con la pesante accusa sia di voto di scambio elettorale politico-mafioso, sia di corruzione elettorale, aggravata dall’uso del metodo mafioso. Due formulazioni di ipotesi di reato inquietanti e che investono la massima espressione istituzionale del governo cittadino, quando mancano due mesi dalla tornata per il rinnovo degli organi amministrativi per il quinquennio 2020\2025. E, finora in oltre trent’anni, nessuno ciclo amministrativo si è concluso a scadenza normale. Una situazione di sconcerto, a fronte della quale Marigliano s’interroga e vuole conoscere che cosa sia avvenuto da determinare l’arresto del “primo cittadino”, la cui candidatura di conferma alla guida dell’amministrazione per la tornata di settembre prossimo era stata appena formalizzata la scorsa settimana, con il supporto della coalizione di centro–sinistra. E dallo stretto e rigoroso riserbo sulle risultanze dell’inchiesta sviluppata dalla Direzione distrettuale anti–mafia di Napoli trapelano elementi e dati che permettono di comporre il quadro di quelli che vanno considerati veri e propri intrecci che avrebbe sviluppato Antonio Carpino e alcuni componenti di spicco della camorra locale; intrecci per i quali, Carpino avrebbe chiesto i voti dei cittadini del quartiere di Pontecitra, sia per essere sostenuto nelle votazioni delle “primarie” nel Partito democratico, svoltesi l’ 8 marzo del 2015, sia per le elezioni amministrative del 31 maggio che per il ballottaggio del 14 giugno del 2015, per essere eletto sindaco. E -queste- sono circostanze che emergono dagli atti dell’inchiesta della Didia di Napoli e dei carabinieri del comando provinciale di Castello di Cisterna, che sono alla base dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, firmata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale partenopeo, Egle Pilla, a carico di Antonio Carpino, e di Luigi Esposito, ‘o sciamarro boss dell’omonimo clan locale, già in carcere e sottoposto al regime del 41 bis e che avrebbe pilotato e gestito la campagna elettorale a supporto di Carpino. Un patto della cui partecipazione risultano gravemente indiziati in concorso tra loro Cristiano Piezzo, Massimo Pelliccia e Tommaso Schisa, organici alla camorra del territorio e collaboratori di giustizia.
E’ il contesto, nel quale Carpino, in cambio del sostegno e del favore richiesti, avrebbe promesso ai camorristi – così come la vicenda viene ricostruita dagli inquirenti- sia denaro che altre utilità correlate all’esercizio dell’amministrazione comunale. In particolare, il sindaco arrestato avrebbe promesso di costituire una cooperativa di ex–detenuti, in cui sarebbero state assunte solo persone che i suoi interlocutori di camorra avrebbero indicato. E, nello stesso tempo, avrebbe assicurato i controlli degli appalti comunali agli imprenditori graditi al boss Esposito e a Cristiano Piezzo capo del clan dei cosiddetti mariglianesi; imprenditori, a loro volta, vittime delle richieste estorsive dei due boss, in grado di proteggere e di estorcere. E dall’attività d’indagine emergerebbe che Antonio Carpino avrebbe versato in due tranche ai due boss di camorra, 10 mila euro,prima del voto e dopo le elezioni del 2015.
I tasselli che formerebbero il mosaico ch’è stato possibile comporre hanno alcuni punti di riferimento fermi, che includono la realtà del quartiere Pontecitra, formatosi ex novo con gli insediamenti abitativi del dopo-terremoto dell’80, considerato in tutta evidenza maggiormente permeabile ai condizionamenti della camorra locale, le richieste di favore e sostegno elettorale fatte da Carpino ad uomini dei clan, assicurando loro utilità e controlli sugli appalti comunali, violando ogni principio di pubblica trasparenza e regolare gestione amministrativa. Sono tasselli, il cui collante avrebbe funzionato senza problemi per la prima parte del 2015, quando erano operanti le alleanze tra i clan di camorra dominanti sul territorio per la gestione delle attività illecite, rappresentati da Luigi Esposito, ‘o sciamarro, Massimo Pelliccia, ex cognato di Esposito, e Cristiano Piezzo. Poi, la pax camorrista si sarebbe esaurita, con la scomposizione delle alleanze di malaffare economico, fino allo scontro tra il clan dei Napoletani–Mazzarella, capeggiato da Cristiano Piezzo, e quello dei cosiddetti cafoni, capeggiato da Luigi Esposito, ‘o sciamarro, che puntava al controllo diretto e assoluto del malaffare sul territorio, escludendo la presenza dei camorristi del clan avverso dei Mazzarella appunto.
Nell’innesco della ricostruzione della vicenda e delle sue pieghe, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia hanno fornito significativi dettagli sull’intreccio determinatosi tra politica e camorra nel voto per le “amministrative” di cinque anni fa. Sono dettagli, tra i quali vanno inserite le dichiarazioni di Raffaele Aurelio – altro collaboratore di giustizia, che ha fatto parte sia del clan guidato da Luigi Esposito che del clan capeggiato da Cristiano Piezzo – in ordine alla funzione che avrebbe dovuto svolgere la cooperativa da costituire e che sarebbe stata formata da ex-detenuti, con l’assunzione solo di persone gradite dai boss: avrebbe dovuto avere un ruolo di copertura verso i carabinieri e la Procura della Repubblica, a tutela dei flussi di denaro e dei beni patrimoniali della cooperativa.