Il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore è coperto dalla tutela assicurativa che garantisce da ogni forma di malattia, fisica o psichica, legata all’attività di servizio
Sono anni che lo “Sportello dei Diritti” si occupa di tutelare i lavoratori vessati sul posto di lavoro e che hanno lamentato di essere vittima del famigerato “mobbing”, una parola anglosassone che nel definire un fenomeno da sempre esistente sui luoghi di lavoro è entrata di diritto nel nostro vocabolario, ma che ha conosciuto, specialmente negli ultimi anni, alterne fortune in termini di tutela per i dipendenti. Proprio per tale ragione, Giovanni D’Agata, presidente “Sportello dei Diritti”, noto anche per la sua battaglia personale contro le condotte datoriali ai danni del lavoratore, ritiene utile segnalare un’importante ordinanza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, la numero 6346/19 resa in data di ieri 5 marzo. Nella fattispecie, la Suprema Corte ha chiaramente riconosciuto il principio secondo cui per il cosiddetto “danno da mobbing” può rispondere l’Inail sostituendosi al datore. Nella fattispecie approdata innanzi ai giudici di legittimità è stata ritenuta sussistente la condizione per esonerare l’azienda dal risarcimento della lesione biologica quantificata nella misura dell’8 %: la tutela assicurativa dell’ente previdenziale copre ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che si può ritenere conseguenza dell’attività di servizio. Nel caso affrontato dai giudici del Palazzaccio è stato accolto il ricorso del datore perché effettivamente è l’Inail l’unico soggetto obbligato, anche se non si configura un difetto di legittimazione passiva come denunciato dall’impresa ma, piuttosto, di accertare l’effettiva titolarità del rapporto dedotto in giudizio. Ricordano gli ermellini che si configura il mobbing quando una serie di condotte vessatorie e mortificanti patite dal lavoratore ad opera di colleghi e superiori sono frutto di un intento persecutorio: sussistendo questa condizione, sussiste la responsabilità del datore perché non adempie all’obbligo di tutelare le condizioni di salute dei dipendenti laddove il lavoratore chiede il risarcimento per la lesione all’integrità psico-fisica ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile. È bene ricordare – ricordano i giudici di piazza Cavour – che in tema di malattia professionale, la tutela assicurativa Inail va estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione che l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione, anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi specificamente indicati in tabella: dovendo il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata. Non c’è dubbio che il giudice possa procedere d’ufficio a verificare se ci sono le condizioni per esonerare l’azienda dal risarcimento, il tutto in base al complesso meccanismo di cui all’articolo 10 del testo unico sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. E il mobbing ben può essere qualificato come malattia professionale non tipizzata che consegue comunque alla prestazione lavorativa. Insomma, per Giovanni D’Agata, presidente “Sportello dei Diritti”, un motivo in più per ogni lavoratore che si ritiene leso sul luogo di lavoro da condotte datoriali vessatorie e mortificanti, per agire per tutelare i propri diritti e la propria integrità psico-fisica.