No dei revisori dei conti alla certificazione di bilancio della Gori: debiti per circa 340 milioni. L’Alto Calore rischia il tracollo senza la ricapitalizzazione e i fondi della Regione-Campania
Gianni Amodeo
“Non siamo stati in grado di esprimere un giudizio sulla coerenza della relazione della gestione con il bilancio di esercizio di Gori– società per azioni a capitale misto pubblico\privato– al 31 dicembre del 2017 e sulla conformità della stessa alle norme di legge”.
E’ il grave, sconcertante passaggio testuale, che fa risaltare persino la pienezza del disagio provato sul piano professionale e civico da coloro che lo sottoscrivono; passaggio, che costituisce il “focus” della dettagliata nota di parere negativo messa a punto dai revisori dei conti della Price Water House Cooper, in ordine alla ricognizione analitica sul prospetto documentale di bilancio presentato per l’annualità del 2017; prospetto,nel quale sono indicati debiti, contratti dalla Gori, per forniture pari a circa 338 milioni di euro.
E’ una cospicua massa debitoria, di cui quasi 183 milioni rientrano nel piano di rimborso pluriennale sottoscritto dalla società con la Regione–Campania. Un indebitamento consistente e correlato ad un trend di negatività crescenti di anno in anno, se solo si consideri che l’atto dei professionisti della Price Water House Cooper è il quarto dei pareri consecutivi con cui il bilancio proposto dalla Gori non ha superato l’esame della certificazione della conformità alle norme in materia. Un bilancio reso noto in ritardo e con pubblicità ridotta ai minimi termini, come denuncia a chiare lettere la Rete dei movimenti di volontariato civico per l’acqua pubblica, nel quasi generale silenzio del circuito informativo. E per il dettaglio cronachistico va rilevato che i tre precedenti e consecutivi pareri negativi sono stati siglati dalla società di revisione Ernst&Young
La negazione del placet, in cui è incappata la Gori per la quarta volta consecutiva è la plastica testimonianza di uno stato di mala gestio strutturale e capillare che dovrebbe suscitare ben più di un semplice allarme, ma soprattutto l’attenta e approfondita analisi sia della politica e dei ceti amministrativi locali che delle Istituzioni, tenendo presente che la Gori esse.pi.a. gestisce i servizi idrici integrati in oltre settanta Comuni con la complessiva popolazione superiore ad un milione di abitanti- che fanno parte della Città metropolitana di Napoli; servizi assunti negli iniziali anni dell’ormai decorso decennio dalla società, costituita con capitale pubblico e privato, di cui è gran parte l’holding Acea,con sostanziale ruolo di governante ed importanti ritorni economici, che, a sua volta è società partecipata dal Comune di Roma. E sono servizi concepiti e prefigurati con la giusta finalità di razionalizzare l’intero sistema di erogazione, superando lo schema delle frammentate gestioni preesistenti; finalità sostanzialmente disattese sul fronte della qualità dell’acqua, della funzionalità degli impianti e della manutenzione ordinaria delle reti idriche e fognarie. E si tratta di servizi, che sono pagati dai cittadini con tariffe congrue secondo le disposizioni normative, per circa il 90% delle utenze, con un indice d’evasione ritenuto fisiologico. Una patologia, in cui vanno inserite le recenti azioni giudiziarie avviate dalla Regione-Campania verso la Gori per il recupero coattivo di 135 milioni di euro.
Il salvataggio dell’Alto Calore e le difficoltà dei Comuni
E se la Gori versa in sofferenza cronica, note dolenti arrivano dal Consorzio intercomunale dell’Alto Calore per i servizi idrici erogati a un centinaio di Comuni delle province di Avellino e Benevento per una popolazione di circa 400 mila abitanti, in complesso, ed istituito negli anni del secondo dopo-guerra mondiale, utilizzando su larga scala gli investimenti della Cassa del Mezzogiorno nell’ambito dell’intervento pubblico, che tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso ha promosso la realizzazione di infrastrutture viarie, autostradali e idriche per la modernizzazione del Sud.
Sono le note dolenti, che riflettono una situazione di criticità tradotta in una massa debitoria di 134 milioni – consolidatasi nel decorso degli ultimi decenni- per la quale c’è il piano di recupero e risanamento, per evitare di “portare i libri contabili in Tribunale” con tutti gli effetti del caso per quanti potrebbero essere chiamati a rispondere per le dirette responsabilità esercitate ai “vertici” del Consorzio irpino-sannita; responsabilità per le quali è già in atto un procedimento della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della Campania. Un piano pluriennale d’intervento articolato su tre versanti. Il primo contempla risorse per oltre 60 milioni di euro che saranno conferiti dalla Regione-Campania alla società consortile con sede in corso Europa, nel capoluogo irpino; il secondo prefigura il ridimensionamento del personale di servizio in via di pensionamento e pre-pensionamento; il terzo versante prefigura la ricapitalizzazione della società consortile per 25 milioni di euro, su cui si dovranno deliberare le assemblee municipali dei Comuni.
Ma è proprio la ricapitalizzazione,su cui ruota il piano di risanamento, a profilarsi irta di difficoltà considerate le condizioni di precarietà economica in cui versa la gran parte degli Enti locali che formano la compagine consortile, con popolazione inferiore ai cinque mila abitanti e bilanci, la cui tenuta permette già con difficoltà la programmazione e gestione dei servizi essenziali e il mantenimento del personale. Una situazione, su cui il riparto proporzionato degli oneri della ricapitalizzazione da sostenere peserebbe come un macigno da pre-dissesto, facendo temere addirittura il dissesto. Come dire, finire dalla padella nella brace, senza … alcuna distinta alternativa. Una prospettiva tutt’altro che “incoraggiante” e che tiene in stato di fibrillazione le amministrazioni comunali interessate, dal momento che la mancata ricapitalizzazione, condurrebbe al fallimento della società; stato di fibrillazione che “attraversa” le associazioni degli utenti in vista degli aumenti tariffari che sono fattore integrante del piano di risanamento e recupero da attuare per “salvare” l’Alto calore.
Sono storie diverse, quelle della Gori e dell’Alto Calore, che al di là delle inadeguatezze degli impianti e delle croniche criticità delle reti infrastrutturali utilizzate, presentano un unico comun denominatore: pessima gestione, specchio di amministrazioni espresse dalla politica clientelare, che ne ha distorto le funzione di utilità pubblica, accentuandone costi e oneri economici. Storie diverse, con responsabilità tutt’altro che … marziane, che gravano su un settore di servizi di primaria importanza, condizionando la qualità dell’organizzazione sociale, rispetto al quale la politica, però, continua a segnare il passo e a manifestare inettitudine. E tradisce non solo le pur innovative leggi in materia di Ambito territoriali ottimali con l’approdo alla piena operatività dell’Ente idrico della Regione-Campania, ma anche e soprattutto le istanze espresse dal voto di ampio consenso popolare per il referendum dell’11 giugno del 2011 a favore della ri–pubblicizzazione dei servizi idrici integrati e per il loro generale riordino e riassetto.