Il trend della Scuola italiana ci propone come soluzione di tanti problemi la cosiddetta “settimana corta”.
Essa è stata deliberata e ratificata dagli OO. CC. di varie Istituzioni nella nostra Provincia e nelle altre della Campania.
Tale “presunta scelta” nascerebbe da alcune esigenze confutabili e discutibili: il risparmio energetico, la compattazione dell’orario di servizio di tutto il Personale, le esigenze delle Famiglie, eccetera.
Il frutto di tali orientamenti dovrebbe nascere da una consultazione dell’Utenza indiretta (i Genitori), ma spesso ha origine da scelte autonome delle singole Scuole.
Si dovrebbe, probabilmente, ragionare in modo diverso, rispondendo a concrete, reali ed inconfutabili bisogni di “determinati Territori”.
Come non pensare a quei paesi presenti nelle definite comunità montane, come non considerare i vari plessi presenti in zone periferiche dei centri urbani, attanagliate dall’assenza di servizi, di punti di aggregazione, di ludoteche e biblioteche pubbliche, di info-point che danno ad una determinata periferia l’idea del deserto.
Per queste realtà sociali tanti pedagogisti del vicino passato e del presente hanno pensato che, al deserto, la risposta potesse giungere proprio dalle “scuole aperte”, nelle quali programmare, progettare attività didattiche ordinarie ed alternative.
Sarebbe un mero errore valutare come positiva la settimana corta, avallando l’idea di un diffuso risparmio energetico: da quando in qua questa è una problematica della scuola?
Potremmo comprendere una tale scelta in un territorio costituito da famiglie di media ed alta borghesia, le quali vedono nel fine settimana un momento di svago.
Laddove, invece, la Scuola è presente nei caseggiati popolari, nella GESCAL, nei quartieri post terremoto, il sabato rappresenta un giorno come un altro, nel quale gli adulti cercano di sbarcare il proprio lunario ed i minori insieme a loro, visto che la scuola non c’è perché è chiusa.
Opzione valida sarebbe quella di coinvolgere ed indirizzare alle scuole “a rischio”, alle scuole “di periferia”, alle scuole “di comunità montane”, ulteriori e copiosi finanziamenti per attrezzare ambienti educativi adatti per una pedagogia alternativa e popolare.
In caso contrario, dovremmo richiamare le parole di Bruno Ciari, autore negli anni settanta di un testo conosciuto da tanti, che ipotizzava la Scuola come “La Grande Disadattata” (Editori Riuniti – Roma, 1972).
Andando controcorrente si potrebbe pensare ad un Ente educante, che nel giorno di sabato e con le Risorse professionali adatte, potrebbe attivare il lavoro di psicologi, di psicopedagogisti, di operatori della comunicazione fra minori e fra adulti! Sarebbe una Scuola che propone un servizio a tutto tondo! Vincenzo Serpico