di Carmine Magnotti
Non riusciamo a ricostruire un’immagine fedele ricomponendo i frammenti parziali persino delle persone che conosciamo più da vicino. La realtà di ciascuno – unica e irripetibile- eccede sempre le nostre capacità di rappresentarla. E questo vale ancora di più per le persone che non conosciamo e che identifichiamo -sempre in forma riduttiva – come componenti di una categoria: gli immigrati, i giovani, i disoccupati, gli insegnanti. Le categorie sono necessarie per affrontare una realtà sempre più complessa, ma non possono essere irrigidite, altrimenti si trasformano in stereotipi e pregiudizi.
Le categorie isolano un solo elemento di una identità che è sempre molto più ricca e poi lo rendono assoluto come se fosse l’unico rilevante Così considerare una donna eritrea come “immigrata” ci impedisce di vederla anche come madre preoccupata di dare un futuro migliore ai suoi figli, o come una figlia preoccupata per gli anziani genitori lasciati in un Paese difficile, o come una donna in cerca di lavoro in un mondo in cui è già difficile trovarlo per chi ha professionalità. Ciò che ci divide impedisce di vedere ciò che ci unisce in una comune condizione umana come scrive sostiene Hannah Arendt, il cui pensiero conserva una straordinaria attualità.