Oggi 11 marzo la chiesa ricorda san Sofronio di Gerusalemme, nacque a Damasco (Siria) nel 560 circa. Abbandonò ancora giovincello la sua città natale, per intraprendere numerosi viaggi, ma sempre rimase orgoglioso del suo luogo d’origine. Sofronio compì i suoi studi prevalentemente a Damasco, ove fu istruito nella cultura greca e siriaca. Fece un pellegrinaggio in Terrasanta allo scopo di venerare i luoghi santi e d’intrattenersi con gli asceti che vivevano nei monasteri e nel deserto. Desideroso di farsi monaco, si recò in Giudea, nel monastero di san Teodosio e qui incontrò Giovanni Mosco, un monaco e cronista siriano, già suo padre spirituale, con il quale strinse un duraturo legame di amicizia. Difficile è valutare l’influenza che ciascuno esercitò sull’altro: Sofronio era decisamente più colto, ma considerava l’amico sua guida spirituale e suo consigliere. Probabilmente ciò che li legava era l’interesse che condividevano per l’integrità della fede come era stata enunciata in maniera definitiva dal Concilio di Calcedonia. I contrasti già presenti a quel tempo nel mondo mediorientale spinsero i due amici a spostarsi molto, ospitati da diversi monasteri. Essi visitarono numerosi monasteri: tra il 578 e il 584 giunsero in Egitto. Sofronio divenne discepolo del filosofo Stefano di Alessandria ed il suo amico di Teodoro il Filosofo. Fu in questo periodo che Sofronio fu colpito da una malattia agli occhi, dalla quale guarì per intercessione dei santi anargiri Ciro e Giovanni. Intorno al 584 Sofronio decise di rinunciare al mondo e prese l’abito monastico nel monastero di san Teodosio, mentre Giovanni Mosco si ritirò per dieci anni in un monastero sul Sinai per poi visitare i monasteri della Cilicia e della Siria. Quando i persiani iniziarono le loro incursioni nell’impero roma¬no nel 604, Giovanni Mosco si rifugiò ad Antiochia di Siria; lo ritroviamo poi insieme a Sofronio in Egitto, dove rimasero per dieci anni al servizio del patriarca di Alessandria, san Giovanni l’Elemosiniere, no-minato nel 610, uno dei pochi vescovi calcedonesi in un paese a maggioranza monofisita. I persiani occuparono i luoghi santi nel 614, dirigendosi verso l’Egitto. Giovanni l’Elemosiniere fuggì a Cipro insieme a Sofronio e a Giovanni Mosco, che visitarono anche le altre isole e infine de¬cisero di partire per Roma. Là Giovanni l’Elemosiniere si ammalò gravemente e, nel 619, morì, lasciando a Sofronio le sue ultime volontà. Dal 634 Sofronio fu il nuovo patriarca di Gerusalemme, ruolo che gli permise di proseguire con maggiore autorevolezza la sua battaglia contro il monotelismo, eresia consistente nell’affermazione che in Cristo esiste un’unica volontà, e che l’imperatore Eraclio I aveva diffuso nell’impero con il consenso del patriarca di Costantinopoli Sergio I, che resse il Patriarcato dal 610 al 638. Ci vollero ben dieci anni prima che il papa Martino I condannasse l’eresia al Concilio Lateranense. Morì a Gerusalemme l’11 marzo 638.
11 marzo: sant’Eulogio di Cordova, fu uno dei Martiri di Cordova, insieme a Sancho, Rodrigo e Salomone, cristiani mozarabi (cioè che rifiutavano l’assimilazione culturale con gli arabi, non desideravano abbandonare la propria cultura) i quali, durante il regno dell’emiro ’Abd al-Raḥmān II, vennero condannati a morte dalle autorità islamiche per aver offeso il Corano e insultato il profeta Maometto. Cordova, strappata ai Visigoti dagli Arabi nel 771, raggiunse il suo culmine culturale tra il IX e il X secolo, prima di essere riconquistata nel 1236 da re Ferdinando III di Castiglia. I musulmani non si mostrarono sempre feroci persecutori dei cristiani: talvolta si limitavano a imporre loro di non testimoniare la loro fede in pubblico e di versare un cospicuo tributo periodico in quanto “dhimmi”; se ciò provocava lo spirito d’indipendenza dei cristiani, i più sensibili non potevano tollerare una specie di ibernazione religiosa. Di qui sporadiche reazioni alla dominazione, che venivano soffocate con immediate repressioni. Di una di queste reazioni furono protagonisti Rodrigo, Salomone ed Eulogio. Quest’ultimo era prete; non potendo accettare la passività dei cristiani, parlò apertamente contro il Corano. Imprigionato una prima volta, venne rilasciato nell’851. Avendo incontrato in carcere Flora e Marta (Maria), che furono poi decapitate morendo in nome della fede cristiana, Eulogio attribuì la sua scarcerazione, avvenuta pochi giorni dopo il loro martirio, proprio all’intercessione di queste due donne, contribuendo così alla loro santificazione. Eulogio, proveniente da un’antica famiglia senatoriale. Nella nuova situazione la famiglia aveva visto ridurre sensibilmente la sua importanza, ma era rimasta fedele al cristianesimo. Destinato al sacerdozio dalla madre, Eulogio era stato iscritto all’età di sette anni nella scuola della basilica di San Zoilo, dove si preparò alla carriera ecclesiale. Cercò ovunque in Cordova insegnanti che l’aiutassero ad approfondire gli studi e fu così che incontrò l’abate Speraindeo, un eremita, studioso dei Padri della Chiesa, amante della fede, che apprezzava la lingua latina e la cultura iberica. Speraindeo era troppo buono per covare sentimenti di odio, ma non poteva provare altro che repulsione verso i conquistatori arabi e tutto ciò che avevano portato in Spagna. La sua influenza su Eulogio pare sia stata considerevole. Eulogio fu anche scrittore. Scrisse la Passio Florae et Mariae e, nell’857, Apologeticum Sanctorum, che lo fece conoscere in tutta la Spagna. Nominato vescovo di Toledo, non poté essere consacrato, perché venne decapitato l’11 marzo 859.
11 marzo: venerabile Francesco Gonzaga (al secolo Annibale Gonzaga), nacque a Gazzuolo (Mantova) il 31 luglio 1546, dal marchese Carlo Gonzaga e dalla sua moglie Emilia Cauzzi-Gonzaga Boschetti. Rimasto orfano, nel 1555, del padre, il marchese crebbe sotto la tutela dello zio, il cardinale Ercole Gonzaga. Quando il Annibale raggiunse i 9 anni Ercole lo condusse a Mantova per farlo educare a corte. Fu poi inviato nelle Fiandre alla corte di Filippo II, con Alessandro Farnese, di due anni maggiore di lui, per essere avviato alla carriera militare. Fu a Bruxelles dal febbraio del 1558 e nel 1559, col Farnese, seguì Filippo II in Spagna; dopo un biennio a Toledo, dove ascoltò il celebre predicatore francescano Alonso Lobo de Medina Sidonia e frequentò il convento di San Juan de los Reyes, nel maggio 1561 si trasferì con la corte a Madrid. Nell’ottobre, aggravatesi le condizioni di salute del figlio di Filippo II, don Carlos, Annibale e Alessandro Farnese lo accompagnarono ad Alcalá de Henares, dove egli frequentò i francescani del convento locale, in particolare Cristóbal de Ávila. Quando manifestò il proposito di entrare nell’Ordine dei Frati Minori tutti si opposero e tentarono ogni mezzo per dissuaderlo, chiedendo a tale fine anche l’aiuto del cardinale Ercole Gonzaga. Superate le perplessità della corte e forti resistenze della famiglia, il 17 maggio 1562 ricevette il saio francescano da Bernardo de Fresneda, vescovo di Cuenca e confessore di Filippo II, assumendo il nome di Francesco. Al termine dell’anno di noviziato, il 29 maggio 1563, emise la professione religiosa. Dopo un breve periodo nel convento di Sant’Antonio de Cabrera, studiò per tre anni arti e retorica in quelli di Pastrana e Mondéjar, quindi logica e filosofia nel convento di Torrelaguna sotto Diego de Zúñiga, infine teologia ad Alcalá de Henares. Nel settembre 1570, compiuti 24 anni, fu ordinato sacerdote a Toledo; immediatamente il capitolo provinciale di Castiglia gli concesse le facoltà di predicatore, lettore e confessore. Il padre generale del tempo lo richiamò in Italia ed egli si stabilì a Mantova dove i suoi governavano, dando grande esempio nell’umiltà, nel lavoro, nell’orazione, nella povertà, nella carità fraterna, nello zelo apostolico. Nel 1579, a soli 33 anni, fu eletto ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori e come tale si dedicò alla redazione di nuove costituzioni che permettessero ai Frati Minori di accogliere gli insegnamenti del Concilio di Trento. Dalla fine del 1587 fu vescovo di Cefalù. Il 29 gennaio 1593, per la morte di sant’Alessandro Sauli, Clemente VIII lo nominò vescovo di Pavia. Il 30 aprile 1593 fu nominato vescovo di Mantova, dove condusse sempre una vita di preghiera, carità e penitenza; pagò i debiti dei carcerati, rinnovò la facciata della cattedrale, il palazzo vescovile, fabbricò il seminario e alcune case per famiglie povere. Nel 1596 papa Clemente VIII lo chiamò a Roma per nominarlo nunzio apostolico a Parigi per due anni, qui partecipò all’opera di riconciliazione tra la Francia e la Spagna, con la Pace di Vervins del 1598. Terminata la missione, ritornò in Italia nell’ottobre 1598. In mezzo a tanti affari e alle cure pastorali, nonostante l’età avanzata, lavorava con inalterato ardore apostolico, per nulla diminuendo l’abituale austerità di vita, le durissime penitenze. La sera del 26 giugno 1617 fu colpito da apoplessia; pur migliorando rapidamente, riportò limitazioni alle capacità motorie. Distribuì tutti i suoi averi, per morire francescanamente povero. Morì a Mantova l’11 marzo 1620