a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 18 febbraio la chiesa celebra beato Giovanni da Fiesole (Beato Angelico) (al secolo Guido di Pietro Trosini), nacque a Vicchio (Firenze) nel 1395 circa. Scarse sono le notizie sulla sua famiglia, la sua educazione artistica si svolse nella Firenze di Lorenzo Monaco e Gherardo Starnina, dal primo riprese sia l’uso di colori accesi e innaturali, sia l’uso di una luce fortissima che annulla le ombre e partecipa al misticismo della scena sacra, tutti temi che ritroviamo nella sua produzione miniaturistica e nelle sue prime opere. Nel 1418 realizzò una pala d’altare per la cappella Gherardini in Santo Stefano a Firenze. Quando sentì la vocazione, a 20 anni, insieme al fratello Benedetto più piccolo, si presentò al convento domenicano di Fiesole. Ordinato sacerdote assunse il nome di fra Giovanni da Fiesole. In seguito si trasferì nel convento di San Marco a Firenze, dove ancora oggi sono conservati molti dei suoi capolavori. L’azione di santo e di artista del giovane si svolse mirabilmente nel clima di alta perfezione spirituale e intellettuale trovato nel chiostro. Le sante austerità, gli studi profondi, la perenne elevazione dell’anima a Dio, affinarono il suo spirito e gli aprirono orizzonti sconfinati. Così preparato, da buon frate predicatore, poté anch’egli dare agli altri il frutto della propria contemplazione e dar vita, col suo magico pennello, al più sacro dei poemi, narrando ai fratelli la divina storia della nostra salvezza. I suoi Crocifissi, le sue Madonne, i suoi Santi sono una predica che risuona nei secoli. Anima di una semplicità evangelica, seppe vivere col cuore in cielo, pur consacrandosi ad un intenso lavoro. Nel 1445 fu convocato a lavorare nella Basilica di San Pietro e nei Palazzi Vaticani, su invito di papa Eugenio IV, che nel 1434 aveva soggiornato nel convento di San Marco dove poté ammirare l’opera dell’Angelico. Mentre per papa Niccolò V, dipinse la sua cappella privata e lo studio in Vaticano. Papa Eugenio IV gli offrì la carica di arcivescovo di Firenze, che energicamente rifiutò, ma persuase il pontefice a nominare il confratello sant’Antonino Pierozzi. Morì il 18 febbraio 1455 a Roma, ed è sepolto nel convento di Santa Maria sopra Minerva; patrono degli artisti.
18 febbraio: santa Geltrude Comensoli (al secolo Caterina), nacque a Bienno (Brescia) il 18 gennaio 1847, da una famiglia povera, ma molto religiosa e credente. Caterina fin da giovinetta aveva una sensibilità eucaristica, ricevendo la prima Comunione a soli 7 anni. Il suo motto: “Gesù amarti e farti amare” diventa il programma della sua vita. Attratta ad una vita più perfetta, nel 1867 si consacra nella Compagnia di Sant’Angela Merici. La postulante si ammalò e venne dimessa dall’Istituto. Dopo la guarigione, a causa delle mutate condizioni finanziarie della famiglia, ammalatosi il padre nel 1869, per portare aiuto alla famiglia è disposta a lasciare Bienno, per andare in qualità di domestica, prima nella casa del parroco di Chiari (Brescia), don Giovanni Battista Rota, il quale, qualche anno dopo, venne eletto vescovo di Lodi, e poi, come dama di compagnia di una gentildonna, la contessa Ippolita Fè-Vitali, tra Milano e San Gervasio (Bergamo). Senza trascurare i suoi doveri di domestica, Caterina si fece educatrice dei bambini di San Gervasio e li guidò sulla via delle virtù cristiane e sociali. Con la preghiera assidua, la mortificazione, un’intensa vita interiore e l’esercizio delle opere di misericordia, Caterina si preparò ad accogliere la volontà del Signore. Rimase a servizio tra Milano e San Gervasio per 8 anni, ma maturò in lei l’ideale di fondare un istituto dedito all’Adorazione e all’educazione dei piccoli e dei giovani, che si concretizzò con l’incontro a Bergamo di don Francesco Spinelli (oggi beato). Il 15 dicembre 1882, insieme a due altre compagne, fondò l’Istituto delle Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento (sacramentine) e prese il nome di suor Geltrude del Santissimo Sacramento. In diocesi l’iniziativa è bene accolta, una famiglia religiosa di questo tipo è necessaria e utile. Dopo la prima casa a Bergamo se ne aprono altre in Lombardia. Ma poi c’è un crollo, vanno in dissesto certe iniziative economiche di don Spinelli, su cui si reggeva l’Istituto, e per Geltrude sembra imminente la rovina di tutto. Geltrude, dopo un fugace smarrimento, lo considera una prova richiesta dal Signore, fiduciosa nella Divina Provvidenza. Devono andarsene da Bergamo, quasi come esiliate, e trovano rifugio in diocesi di Lodi, con le suore che le restano vicino nel dolore, nella pazienza e nella speranza della ricostruzione. Rinasce l’Istituto rigoglioso e vivo come un tenero albero, che ha trovato le sue radici nel terreno della preghiera, della sofferenza, della fede e dell’umiltà; rinasce grazie all’energia e all’equilibrio di Geltrude, delle suore che hanno collaborato con tutte le forze e con tutto l’amore di cui erano capaci per la realizzazione di un sogno che ormai era diventato comune; rinasce grazie al concreto e premuroso sostegno del vescovo di Lodi, Giovanni Battista Rota, di Chiari, nella cui famiglia Geltrude era stata domestica per 5 anni. Ma soprattutto hanno Gertrude, con la sua energia tranquilla, e quando tutto sembra finito, ecco arrivare invece il riconoscimento diocesano per le sacramentine. Poi, la rivincita, il ritorno a Bergamo nel 1892, Geltrude riconquista, sia pur in affitto, la prima casa di Bergamo e ritorna, dopo due anni, con le suore all’amata Casa Madre, culla della Congregazione alla quale dà un impulso decisivo e vitale. La fondatrice dette ormai tutte le garanzie di continuità per l’adorazione pubblica perpetua a Gesù Sacramentato, trasfuse nelle suore il suo prezioso patrimonio spirituale, che fu spirito di preghiera, di sacrificio, di mortificazione, di obbedienza, di umiltà, di carità, soprattutto verso i poveri. Morì il 18 febbraio 1903, a soli 56 anni.