a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 21 ottobre la chiesa celebra sant’Orsola e compagne, vissero probabilmente nel IV secolo e non nel V, come vuole la leggenda. Una Passio del X secolo, infatti, narra di una giovane bellissima, Orsola, figlia di un re d’Inghilterra, che si era segretamente consacrata a Dio, ma che fu chiesta in sposa dal principe pagano Eterio, che la giovane accettò di sposare con la promessa che si sarebbe convertito alla fede cristiana. Il rifiuto da parte della principessa avrebbe rischiato di scatenare una guerra ed anche per questo, consigliata da un angelo nel corso di una visione avuta in sogno, chiese di poter rimandare la decisione di tre anni, per meglio comprendere la volontà del Signore e nella speranza che il promesso sposo si convertisse al cristianesimo e cambiasse idea. Allo scadere del tempo stabilito, ancora esortata da un messaggero divino, Orsola prese il mare con undicimila compagne e, secondo alcune versioni, anche con il promesso sposo. Attraversò il tratto fra l’Inghilterra ed il continente su una flotta di undici navi, poi, sospinta da una violenta tempesta, risalì il corso del Reno fino a Colonia e successivamente a Basilea, in Svizzera, da dove proseguì a piedi, in devoto e variopinto pellegrinaggio, fino a Roma. A Roma Orsola e le sue compagne furono accolte da “papa Ciriaco”, personaggio sconosciuto alla storia. Successivamente, di ritorno in patria per la stessa via, transitò per Colonia, che nel frattempo era stata conquistata da Attila re degli Unni: qui le undicimila vergini, esortate da Orsola alla fermezza, furono subito trucidate dalla furia dei barbari in un solo giorno, mentre il famigerato re unno, invaghito dalla sua bellezza, risparmiò Orsola, che chiese anch’egli in sposa, promettendole salva la vita. Al suo rifiuto la fece però uccidere a colpi di freccia, e con lei, secondo una tarda versione, fu ucciso pure papa Ciriaco, che l’aveva seguita nel suo viaggio.
721 ottobre: beato Carlo I d’Asburgo (Karl Franz Josef Ludwig Hubert Georg Maria d’Asburgo-Lorena-Este), nacque a Persenbeug (Austria) il 17 agosto 1887. Carlo ricevette la normale educazione che gli Asburgo riservavano ai loro eredi: l’apprendimento delle lingue parlate nell’Impero, corsi ginnasiali e liceali presso l’Abbazia benedettina degli Scozzesi a Vienna e poi studi universitari a indirizzo giuridico a Praga. Fin da ragazzo mostrò un profondo interesse per i valori religiosi. A 16 anni Carlo entrò nell’esercito e vi rimase fino a quando dovette andare in esilio. Nel 1911 sposò la principessa italiana Zita di Borbone-Parma con la quale ebbe otto figli. Subito dopo le nozze, prestò servizio militare a Vienna. Quando andò in trincea si trovava perfettamente a suo agio con i soldati. Era buono e disponibile con i suoi camerati, ai quali non solo non fece mai pesare il suo rango, anzi faceva di tutto per farsi sentire uno di loro. La vita militare era dura e crudele, ma come succede sempre con le persone che tendono alla perfezione, Carlo trasformava gli ambienti e le persone con i quali veniva in contatto, cambiava, migliorava con la sua bontà e la sua condotta. Era temprato ad ogni fatica, dormiva su un ruvido letto da campo insieme alla truppa. Anche se era successore al trono, non voleva mai niente di speciale per sé. Quando c’erano dei feriti, si inginocchiava accanto a loro e li medicava. Se qualcuno moriva tra le sue braccia, piangeva senza vergognarsi. Divenuto imperatore, continuò a comportarsi come aveva sempre fatto, visitando le truppe al fronte, sfidando i bombardamenti nemici, fermandosi a parlare con i soldati, inginocchiandosi accanto ai feriti. Era un soldato, ma non un sostenitore della guerra, quando si trovò sul trono, fece di tutto per raggiungere la pace. Durante la guerra, non si preoccupò solo dei soldati, ma anche della popolazione. Tutti i cittadini dovevano affrontare la dura realtà dell’economia di guerra e lo faceva anche l’imperatore. Visse con la sua famiglia adottando le razioni di cibo stabilite per il popolo. Rifiutava il pane bianco che veniva passato, e sotto gli occhi degli ufficiali confusi, mangiava il pane di guerra nero. In piena Prima Guerra Mondiale, fu il sovrano che fece di tutto per convincere gli altri capi di Stato a firmare la pace senza condizioni. Il suo sogno era il raggiungimento di una pace mondiale, ma nessuno dei capi di Stato di allora lo comprese, anzi fecero di tutto per isolarlo. Lo calunniarono, lo tradirono, costringendolo all’esilio. L’11 novembre 1918, il giorno in cui finì la guerra, Carlo rimise i propri poteri ai rappresentanti del popolo, senza però abdicare formalmente. Solo con la partenza di Carlo per la Svizzera, il governo austriaco poté procedere, il 3 aprile, allo scioglimento del governo imperiale e alla deposizione ufficiale di Carlo dal trono, oltre che decretare la confisca dei beni e l’esilio della famiglia Asburgo-Lorena dal paese. Nella notte tra il 23 ed il 24 marzo 1919 Carlo I andò in esilio con la famiglia, prima in Svizzera e poi nell’isola portoghese di Madera. La famiglia imperiale visse altri quattro anni insieme, sempre inseparabili e felici nonostante la povertà e le ristrettezze economiche che rasentarono l’indigenza, poi Carlo fu colpito da una forte influenza che si trasformò in broncopolmonite e lo portò alla morte. Morì il 1 aprile 1922, a 35 anni.
21 ottobre: beato Giuseppe Puglisi,nacque a Palermo il 15 settembre 1937, da una famiglia modesta. Entra nel seminario diocesano di Palermo nel 1953 e viene ordinato sacerdote il 2 luglio 1960. Nel 1961 viene nominato vicario cooperatore presso la parrocchia del Santissimo Salvatore nella borgata di Settecannoli. Inizia anche l’insegnamento e nel 1967 è nominato cappellano presso l’istituto per orfani “Roosevelt” all’Addaura e vicario presso la parrocchia Maria Santissima Assunta a Valdesi. Nel 1969 è nominato vicerettore del seminario arcivescovile minore. Sin da questi primi anni segue in particolare modo i giovani e si interessa delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati della città. Il suo desiderio fu sempre quello di incarnare l’annunzio di Gesù Cristo nel territorio, assumendone quindi tutti i problemi per farli propri della comunità cristiana. Il 1 ottobre 1970 viene nominato parroco di Godrano (Palermo), segnato da una sanguinosa faida tra due famiglie mafiose, dove rimane fino al 31 luglio 1978, riuscendo a riconciliare le famiglie dilaniate dalla violenza con la forza del perdono. Il 9 agosto 1978 è nominato pro-rettore del seminario minore di Palermo e il 24 novembre dell’anno seguente come direttore del Centro diocesano vocazioni. Il 24 ottobre 1980 è nominato vice delegato regionale del Centro vocazioni e dal 5 febbraio 1986 è direttore del Centro regionale vocazioni e membro del Consiglio nazionale. Il 29 settembre 1990 viene nominato parroco a San Gaetano, a Brancaccio, territorio controllato dalla criminalità organizzata attraverso i fratelli Graviano, capi-mafia legati alla famiglia del boss Leoluca Bagarella: qui iniziò la lotta antimafia di don Pino. Egli non tentava di portare sulla giusta via coloro che erano già entrati nel vortice della mafia, ma cercava di non farvi entrare i bambini che vivono per strada e che considerano i mafiosi degli idoli, persone che si fanno rispettare. Egli infatti, attraverso attività e giochi, faceva capire loro che si può ottenere rispetto dagli altri anche senza essere criminali, semplicemente per le proprie idee e i propri valori. Si rivolgeva spesso ai mafiosi durante le sue omelie, a volte anche sul sagrato della chiesa. Don Pino tolse dalla strada ragazzi e bambini che, senza il suo aiuto, sarebbero stati risucchiati dalla vita mafiosa, e impiegati per piccole rapine e spaccio. Il fatto che lui togliesse giovani alla mafia fu la principale causa dell’ostilità dei boss, che lo consideravano un ostacolo. Decisero così di ucciderlo, dopo una lunga serie di minacce di morte di cui don Pino non parlò mai con nessuno. Nel 1992 assume l’incarico di direttore spirituale del corso propedeutico presso il seminario arcivescovile di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugura a Brancaccio il centro “Padre Nostro”, che diventa il punto di riferimento per i giovani e le famiglie del quartiere. Il 15 settembre, giorno del suo 56º compleanno, venne ucciso davanti al portone della sua abitazione. Morì il 15 settembre 1993, a 56 anni.
21 ottobre: beato Julian Nakaura, nacque a Nakaura (Giappone) nel 1568, da una famiglia nobile, il padre un samurai cristiano, morto in battaglia quando Julian era solo due. Nel 1582 il cattolicesimo fioriva in alcune parti del Giappone, e in particolare sull’isola di Kyushu. I gesuiti avevano aperto una scuola a Arima, a sud-est di Nagasaki, per la formazione dei giovani samurai cattolici per diventare futuri insegnanti, catechisti e sacerdoti, un Seminario. Julian entrò nel seminario quando raggiunse l’età scolastica. Fu mentre studiava lì che il padre gesuita Alessandro Valignano lo scelse per essere uno dei quattro “ambasciatori giovanili” che stava preparando a portare a Roma e in altre città europee. La missione divenne nota in Giappone come Tenshō shōnen shisetsu. Fu un lungo viaggio trionfale attraverso l’Europa cattolica e soprattutto a Roma dove giunsero nel marzo del 1585, per soggiornarvi oltre due mesi. Uno degli obiettivi principali del viaggio lungo e pericoloso doveva essere ricevuto in udienza dal Papa. Julian, che si era ammalato di malaria durante il viaggio, pregò vivamente di partecipare ugualmente all’udienza. Nel suo stentato latino diceva ai medici che si opponevano: «Se mi conducono dinanzi a lui sono sicuro che guarirò». Vista la sua insistenza, si organizzò un breve incontro privato prima dell’udienza pubblica. Quando il pontefice Gregorio XIII, vide il ragazzo davanti a lui, instabile sulle gambe e tremante di febbre, si alzò e lo abbracciò calorosamente, e quelli più vicini a lui videro le lacrime scese dalle guance. Durante il soggiorno romano Julian visitò con i suoi compagni il noviziato gesuita di Sant’Andrea, pregando dinanzi alla tomba di san Stanislao Kostka, morto pochi anni prima. La sua vita li impressionò profondamente, tanto che quella stessa sera chiesero udienza al padre generale dei gesuiti per informarlo che essi desideravano restare a Roma per entrare nella Compagnia di Gesù. Fu consigliato loro di terminare la missione diplomatica e poi decidere il da farsi. I ragazzi accettarono la proposta, ma Julian aveva già preso la sua ferma decisione e in seguito la mantenne, pur di fronte a tante difficoltà. I quattro giovani tornarono nella loro terra il 21 luglio 1590. Erano stati lontani dal Giappone per 8 anni e mezzo. Nello stesso anno, nel 1590, Julian entrò nel noviziato gesuita a Kawachinoura nelle isole di Amakusa e due anni dopo fece i suoi primi voti religiosi. Poi fu inviato a Macao per completare i suoi studi teologici. Ritornò in Giappone, non ancora sacerdote, nel 1604, e fu assegnato al lavoro pastorale, prima in Arima, poi a Kyoto, e poi a Hakata. Nel 1608, il suo sogno a lungo è avvenuto, fu ordinato sacerdote. Julian non lasciò Giappone con i missionari esiliati nel 1614. Era uno dei 27 gesuiti che continuò il suo ministero in segreto. Come sacerdote, Julian visitò e predicò ai cristiani perseguitati in molte parti dell’isola di Kyushu. Viaggiò a piedi di notte, in abiti laici, rimanendo nelle case dei cristiani nei villaggi. La persecuzione del cristianesimo diventò sempre più intensa. Nel 1627, Julian si trasferì da Arima a Kokura, dove fu catturato e inviato al carcere di Nagasaki. In prigione Julian fu trattenuto 10 mesi, essendo lui un personaggio noto, era logico che i persecutori cercassero tutti i mezzi per indurlo all’apostasia. Ma dopo 9 mesi di carcere, il 18 ottobre 1633, si aprirono anche per lui le porte del carcere per condurlo al martirio. Julian, si avviò con le mani legate dietro la schiena, al luogo dell’esecuzione, sulla collina di Nishizaka, dove davanti ai due governatori di Nagasaki desiderosi di godersi lo spettacolo, si presentò con fierezza e disse: «Io sono padre Julian Nakaura, quello che è andato a Roma». Il martirio da lui subito fu atroce, avvolto in un telo e legato stretto per limitare la respirazione, fu appeso a testa ingiù in una buca, dopo che i suoi aguzzini gli procurarono delle ferite alle orecchie, affinché il sangue ne defluisse lentamente, rendendo più crudele la sua agonia. Julian soffrì agonizzante per ben 3 giorni e le sue ultime parole erano: «Accetto questa grande sofferenza per l’amore di Dio». Morì il 21 ottobre 1633.