Oggi 23 febbraio la chiesa ricorda san Policarpo di Smirne, nacque a Smirne (Turchia) nel 69, figlio di genitori cristiani. L’educazione cristiana avvenne in seno alla famiglia e nella comunità, Policarpo fu educato presso san Giovanni Evangelista. Prima di essere eletto vescovo di Smirne, Policarpo passò probabilmente attraverso i successivi gradi dell’Ordine Sacro, ovvero diaconato e presbiterato, dando in essi prove di saggezza nel ministero e prove di santità nella condotta. Nel 107 ospita sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, che sta andando sotto scorta a Roma dove subirà il martirio; successivamente Ignazio gli scriverà una lettera che tutte le generazioni cristiane conosceranno, lodando Policarpo come buon pastore in Cristo e per Cristo. Divenne uno dei più autorevoli e stimati vescovi del suo tempo, tanto che nel 154 fu scelto come rappresentante della Chiesa d’Asia e inviato a Roma a discutere con papa Aniceto la questione della data di celebrazione della Pasqua, i cristiani dei primi secoli ritenevano essenziale la sua determinazione precisa, sia per l’uniformità in tutta la Chiesa, sia per la fedeltà alla celebrazione fatta da Cristo. In occidente si era raggiunta la quasi totale uniformità accettando l’uso romano della Pasqua nella domenica seguente al plenilunio primaverile. A Roma e a Smirne contrastò la diffusione delle dottrine docetiche (essa si riferisce alla convinzione che le sofferenze e l’umanità di Gesù Cristo fossero apparenti e non reali) di Marcione e Valentino. Secondo sant’Ireneo di Lione, che era stato discepolo di Policarpo, Marcione incontrò Policarpo nel 154 e attribuisce a Marcione la condanna, chiamandolo: «primogenito del demonio», che Policarpo aveva scritto nella sua lettera ai Filippesi, senza indicare nomi. Durante l’impero di Antonino Pio fu catturato per ordine del proconsole Stazio Quadrato: essendosi rifiutato di sacrificare per l’imperatore, fu condannato ad essere arso vivo nello stadio della sua città e, visto che miracolosamente le fiamme non lo consumavano, fu ucciso con un colpo di pugnale. Morì il 23 febbraio 155, all’età di 86 anni.
23 febbraio: san Giovanni Theresti detto il mietitore, nacque a Palermo nel 995 circa. Durante un’incursione saracena sulle coste della Calabria, suo padre era un arconte (magistrato) di Cursano venne ucciso. La madre venne portata con la forza a Palermo, dove fu destinata ad arricchire l’harem di un capo arabo. La donna, al momento della cattura e dell’uccisione del marito, era incinta e, a Palermo, nella casa di un capo maomettano, diede alla luce Giovanni. Il bambino crebbe, così, fra persone che adoravano Maometto, ma egli fu educato nella fede cristiana. All’età di 14 anni la madre lo invitò a fuggire verso il suo paese natio. Si racconta che, munito di una piccola croce, attraversò lo stretto di Messina in una barca senza remi o vela, per poi giungere sino a Stilo (Reggio Calabria). Giovanni nel viaggio fu avvistato da una galera saracena, ma la barca improvvisamente sarebbe affondata per riemergere miracolosamente fuori dalla vista dei saraceni e approdare a Monasterace. Gli abitanti, vedendolo vestito da moro, lo condussero presso il vescovo Giovanni, che lo interrogò per sapere di dove fosse e cosa cercasse. Il ragazzo rispose che chiedeva il battesimo, ma il vescovo lo sottopose a dure prove prima di conferirglielo, imponendogli il proprio nome. Una volta cresciuto, sentì sempre più forte l’attrazione per la vita dei monaci che vivevano nelle grotte nei dintorni di Stilo, affascinato dall’esempio di due asceti basiliani, Ambrogio e Nicola. Dopo molte insistenze, nonostante la sua giovane età, fu ammesso nella comunità e si distinse per virtù, tanto da essere poi eletto abate. Ritrovato a Cursano un tesoro appartenuto alla sua famiglia, seguendo la regola di san Basilio lo distribuì ai poveri. Non lontano dal monastero c’era una grotta dalla quale scaturiva una sorgente e d’inverno, col permesso del superiore, Giovanni usava pregare in mezzo alle acque gelide. Il miracolo più famoso Giovanni lo compì presso Robiano (Monasterace), dove abitava un benefattore del monastero. Giovanni si recò a fargli visita portando con sé del vino e del pane. Durante il tragitto due mietitori presero a canzonarlo. Giovanni si fermò e offrì loro pane e vino. Essi accettarono e presero a mangiare, ma la quantità degli alimenti non diminuì. Mentre Giovanni era in ginocchio per ringraziare Dio, scoppio un violento temporale. I mietitori trovarono riparo sotto gli alberi. Quando il Giovanni si alzò dal suo raccoglimento, tutto il grano era mietuto e già raccolto in covoni. Stupito egli stesso dello straordinario fenomeno, Giovanni decise di sparire tornando al monastero da cui era partito. Questo e altri episodi testimonianti l’aiuto soccorrevole ai contadini, gli valsero l’appellativo di Therìstis, cioè mietitore. Il padrone dei campi, colpito dall’accaduto, li donò al monastero. Morì a Stilo il 23 febbraio 1054.
23 febbraio: san Sereno di Sirmio, nacque in Grecia, abbandonò la sua patria, i beni, i parenti e gli amici decise di vivere una vita da celibe e solitaria nella preghiera, nella penitenza e nell’esercizio della evangelica perfezione. Fuggendo, come tanti altri, dalla persecuzione dell’imperatore Diocleziano, si pose in pellegrinaggio, e giunse a Sirmio (Σίρμιον, attuale Sremska Mitrovica in Serbia). Qui Sereno comprò un giardino, cui egli non conoscendo altra arte da fare con le sue mani, si guadagnò il lavoro con il coltivare un orto. La violenza della persecuzione di Diocleziano l’obbligò a stare nascoso alcuni mesi, dopo i quali se ne tornò a lavorare come prima il suo orto. Un giorno, mentre se ne stava solo al suo lavoro, a mezzogiorno vide entrarvi una signora accompagnata da due altre donne, in quell’ora tutti stavano appartati nelle proprie case. Sereno, sospettando che colei fosse venuta con qualche cattiva intenzione, le domandò che cosa volesse a quell’ora, la donna rispose che era andata a passeggiare in quell’orto. Ribatté Sereno che una donna della sua condizione non avrebbe passeggiato in quell’orario, se non ci fosse stato qualche altro fine. La donna se n’andò, ma irritata da questa ammonizione, scrisse a suo marito, che era un ufficiale dell’imperatore Galerio Massimiano, che Sereno l’aveva offesa. Il marito reclamò con l’imperatore, ed ottenne un ordine per il governatore della provincia che giudicasse questo affare; egli stesso glielo portò, e presentandoglielo lo pregò di vendicare l’ingiuria fattagli nella persona di sua moglie. Stupito il governatore che fosse oltraggiata la moglie di un ufficiale, gli domandò chi era il colpevole. È un uomo, rispose, della plebe, è un ortolano detto Sereno. Subito il governatore ordinò che fosse condotto alla sua presenza, e dopo averlo interrogato, gli domandò perché avesse insultato la moglie di quell’ufficiale. Rispose Sereno, che non aveva offeso nessuna donna. Il governatore gli disse, che vi erano delle prove da convincerlo di aver umiliato una signora che voleva passeggiare nel suo orto. Allora Sereno replicò, che tempo prima una donna passeggiava nel suo orto in un’ora impropria e che le dissi che non conveniva ad una donna onorata uscire in quell’ora dalla casa di suo marito. L’ufficiale, conoscendo da questa risposta la sregolata condotta di sua moglie, arrossì, né pensò più di chiedere vendetta per l’ingiuria. Ma il governatore, dalla risposta di Sereno dimostrò, che quell’ortolano doveva essere cristiano. Invece di lasciar Sereno in libertà, lo interrogò qual fosse la sua religione. Sereno rispose senza esitare, che era cristiano. E dove era stato nascosto finora chiese il governatore e come aveva evitato di sacrificare agli Dei. Sereno disse: «Il Signore mi ha conservato fino a questo giorno la vita, come gli è piaciuto. Io era una pietra di rifiuto, indegno di essere posta nel suo edificio, ma giacché adesso egli vuole collocarmi in esso, ed ha permesso che io sia scoperto, sono pronto a patire per il nome suo, a fine di avere parte nel suo regno insieme con i santi». Il governatore, udita la risposta di Sereno, lo condannò immediatamente alla morte, perché rifiutava di sacrificare agli dei. Subito fu condotto al luogo del supplizio e gli fu tagliata la testa. Morì il 23 febbraio 303.