Oggi 5 maggio la chiesa ricorda sant’Angelo da Gerusalemme, nacque a Gerusalemme (Israele) il 2 marzo 1185, apparteneva a una famiglia di ebrei convertiti al cristianesimo. Alla morte dei genitori, insieme al fratello gemello Giovanni, entrò nel Convento del Monte Carmelo, retto da una comunità religiosa sorta agli inizi del cristianesimo e conosciuta come Ordine della Beata Vergine del Monte Carmelo (carmelitani). Questo ordine proprio in quegli anni scelse una nuova regola, che venne composta da Alberto attorno al 1214, che operava una trasformazione nella vita dei religiosi, passando da contemplativa a mendicante. Angelo venne ordinato sacerdote nel convento del Carmelo all’età di 25 anni. Nel 1218 ricevette l’incarico di andare a Roma, per illustrare la nuova regola a papa Onorio III e richiederne l’approvazione, che ottenne nel 1226. Rimasto a Roma per qualche tempo, svolgendo attività di evangelizzazione con pubbliche prediche, venne inviato in Sicilia per intraprendere un’opera di contrasto contro l’eresia catara. La morte avvenne in circostanze drammatiche, dopo aver convinto la convivente di un nobile locale Berengario, ad abbandonarlo, in quanto legata a lui da vincoli di parentela, venne assalito dal nobile nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo a Licata (Agrigento) e colpito a morte con una spada. Angelo morì pochi giorni dopo, chiedendo che l’aggressore fosse perdonato ed esortando il popolo a fare lo stesso. Morì il 5 maggio 1225.
5 maggio: beato Nunzio Sulprizio, nacque a Pescosansonesco (Pescara) 13 aprile 1817, da un’umile famiglia. Nell’agosto 1820, muore il padre a soli 26 anni. Circa due anni dopo, la mamma si risposa, anche per trovare un sostegno economico, ma il patrigno tratta il piccolo Nunzio con asprezza e grossolanità. Il 5 marzo 1823, muore la mamma, Nunzio ha solo 6 anni e la nonna materna Rosaria Luciani lo ospita in casa, prendendosi cura di lui. Quando ha appena 9 anni, il 4 aprile 1826, gli muore la nonna. Nunzio ormai è solo al mondo ed è per lui l’inizio di una lunga “via dolorosa” che lo configurerà sempre più a Gesù Crocifisso. Solo al mondo, è accolto in casa, come garzone, dallo zio Domenico Luciani il quale subito lo “chiude” nella sua bottega di fabbro, impegnandolo nei lavori più duri, senza alcun riguardo all’età e alle più elementari necessità di vita. Spesso lo tratta male, lasciandolo anche senza cibo, quando a lui sembra che non faccia ciò che gli è richiesto. Alla domenica, anche se nessuno lo manda, va alla Messa, il suo unico sollievo nella settimana. Presto si ammala. Un rigido mattino d’inverno, lo zio lo manda, con un carico di ferramenta sulle spalle, in uno sperduto casolare. Vento, freddo e ghiaccio lo stremano. Lungo il cammino mette i piedi accaldati in un laghetto gelido. A sera rientra spossato, con una gamba gonfia, la febbre che lo brucia, la testa che scoppia. Va a letto, senza dir nulla, ma l’indomani non regge più. Lo zio gli dà come “medicina”, quella di riprendere il lavoro, perché “se non lavori, non mangi”. Si trova con una terribile piaga a un piede, che presto andrà in cancrena. La piaga ha bisogno di continua pulizia e Nunzio si trascina fino alla grande fontana del paese per pulirsi, ma di lì viene presto cacciato come un cane rognoso, dalle donne che, venendo lì a lavare i panni, temono che inquini l’acqua. Trova allora una vena d’acqua a Riparossa, dove può provvedere a se stesso, impreziosendo il tempo lì trascorso con molti Rosari alla Madonna. A un certo punto fu ricoverato per tre mesi all’ospedale “San Salvatore” dell’Aquila, ma le cure sono impotenti. Ritornato all’officina in uno stato doloroso, non poté continuare nel lavoro, pertanto lo zio paterno Francesco Sulprizio, militare a Napoli, lo inviò a Napoli con l’aiuto del colonnello Felice Wochinger, che prese ad amarlo come un figlio e per suo interessamento Nunzio fu ricoverato, il 20 giugno 1832, all’Ospedale degli Incurabili. Per circa due anni, soggiorna tra l’ospedale di Napoli e le cure termali a Ischia, ottenendo qualche passeggero miglioramento. Lascia le stampelle e cammina solo con il bastone. Dall’11 aprile 1834, il colonnello per curarlo meglio, lo condusse con sé nel Maschio Angioino, allora adibito a caserma, mentre il male avanzava inesorabilmente. Presto però, all’iniziale miglioramento, segue l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche: in fondo si tratta di cancro alle ossa e non c’è cura che serva. Le sofferenze sono acutissime, tanto che i medici pensavano di amputargli la gamba; vi rinunciarono però data l’estrema debolezza del giovane. Morì il 5 maggio 1836, a soli 19 anni.